mercoledì 9 marzo 2011

Storia quasi d’amore tra pistacchi e madonne 2/2


(seconda e ultima parte)

Una  mano mi fermò.

Il siriano mi tenne il braccio e si avvicinò all’ orecchio per sussurrarmi qualcosa. Sarà stata la colonna sonora di fondo, le mie orecchie ovattate da anni di incuria, l’accento spiccatamente poco teutonico del mingherlino gestore olivastro, ma io non capii nulla. “hosh poto dafarkt bidère - hosh poto dafarkt bidère” ripeteva, e la sagoma delle sue dita tozze aveva già tribalizzato il mio esile braccio sinistro.
Mi trascinò al piano di sotto. “Vorrà farmi provare qualche intruglio copto”, pensai. “Lo berrò, e ancor di più pervaso da questo neonato coraggio mai trovato prima, mi fionderò nella toilette e poi qualcosa inventerò. Sperando di esprimermi da essere umano e non da minorato sceneggiato da Antongiulio Majano”
Il siriano dagli occhi di ghiaia doveva, invece, mostrarmi delle foto che aveva scattato e sviluppato. All’epoca scrivevo, sottopagato da uno squallido sosia di Carlo Freccero, sull’informagiovani cittadino e gestivo, tra le tante cose, una pagina di foto amatoriali, luoghi inconcepibili, polaroid di carrelli, scatti di unghie, panorami sfocati, vasi rotti, coccigi, matrimoni tristi, ostelli disabitati. Le foto che aveva fatto erano davvero belle. In una di queste c’era una nutria.  Mi ripeteva che era un animale bellissimo, con una coda spessa ed un pelo marrone scuro che gli ricordava la nonna. Diceva che in Siria non c’erano le nutrie. Se ne rammaricava. Credo stesse pensando di aprire un import export di nutrie da e per Damasco. Preso dalla curiosità, sfogliai le altre foto, ma non ricordo cosa ci fosse. Ricordo solo che mi fermai un istante, a riflettere su cosa cazzo stessi facendo al cospetto di un siriano, una nutria probabilmente portatrice sana del ceppo più pericoloso di leptospirosi, un bicchierino di centerba, mentre sopra la mia apparizione su misura, stava, probabilmente, facendo le ragnatele al bagno. Con fatica mi scrollai di dosso il gestore del pub, che mi lasciò in custodia gli scatti al castoro infangato, e più lo guardavo e più mi sembrava un ratto di fogna a tutti gli effetti.

Quando tornai nella sala poco illuminata al piano di sopra, Colei era tornata al tavolo, visibilmente contrariata, pensai io, forse per l’assenza di carta igienica al cesso o per quella lampadina fulminata, appesa foglia di salice tra rami di messaggi profani e pagani. Prese la borsa, il pacchetto di marlboro morbide, un accendino, una magliettina di filo, più fredda dell’aria gelida. Il tutto senza mai staccarmi gli occhi di dosso. Scese le scale, e andò via. Rimasi impietrito a guardarla, senza accennare un sorriso di merda, senza alzare un dito o un sopracciglio. Non dico urlarle qualcosa, ma almeno accennare ad un ciao, anche con la manina. Niente. Mi voltai verso la finestra, attendendone l’uscita dal portone intarsiato del locale. Dopo qualche minuto la vidi passare, di spalle, col golfino attorno al collo, ed una nuvola di fumo che si divideva ai lati della chioma. La seguii con gli occhi per alcuni metri, fin quando lei si girò a guardare verso l’alto. Allora alzai il braccio, come quando il libero segnala un fuorigioco all’arbitro, non visto dal guardalinee. Senza poesia, ma così feci. Lei mi salutò, camminando all’indietro, leggermente china in avanti come a raccogliere l’onore della mia finale attenzione, e mi sembrò la cosa più sexy che mai donna al mondo avesse fatto.
Poi sparì, come un gettone della sip, inghiottita da un angolo di visuale. Appallottolai la nutria, e la gettai in faccia a G., che mi guardava da un po’col medio alzato.

Qualche mese dopo, passate albe al sapore di chantilly e campagne elettorali al gusto di antiacido, stavo bevendo birrevodka battendo la punta della scarpa a tempo con Dawn Penn, in uno dei rari live di qualità che scalfiscono la provincia di questa parte di mondo dimenticata da Dio. L’Esarca mi parlava del suo nuovo racconto. A 5 metri dal mio piede, vidi Lei. Era al bancone, e chiacchierava con un rasta. Mi piacque rivederla. Avevo avuto altre storie, ma la botta di quella sera della nutria, no, non l’avevo dimenticata. Mi dissi che non c’erano siriani del cazzo a fermarmi. Stracciai manuali di tattiche in un pensiero solo. Avevo bisogno di un amo. Che so, il nome.
L’Esarca sapeva tutto, di tutti gli under 40 del territorio. Gli chiesi: “La vedi la tipa bionda laggiù?”. Annuì. “La conosci?”. “Certo”, disse l’Esarca. “È una gran troia”. È una gran troia. Non una troia. Una gran troia.  “Perché me lo chiedi?”, disse. “Niente. Mi incuriosisce sapere il nome delle ragazze. Tutto qui”.

Mi girai dall’altro lato. Feci un sorso molto più lungo del solito. Il piede riprese a battere a tempo.
Oh no, no, no. You don’t love me and i know now.


8 commenti:

  1. grande D! :-)


    e cmq va bene così, dai. il golfino attorno al collo fa così casadellelibertà....

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  2. Non so perché ma vedo tutto marrone… :/

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  3. @ D.: quando li nutro troppo, i ricordi, le cose prendono sempre una piega sbagliata.

    @ ciku: non saprei dirti. So solo che oggi la tipa vive di musica suonata.

    @ petrolio: a quel tempo era il mio colore di riferimento. Dimmi il tuo. :)

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  4. Ufffffff........E io che speravo in te per riscoprire il senso dell'amore...
    Comunque le nutrie sono proprio dei brutti grossi topi di fogna!

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  5. Da tutto questo pastrocchio posso solo consigliarti di rivedere il modo di approccio verso l altro sesso.

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  6. In realtà l'Esarca s'era confuso con la sorella della tizia che era una gran troia, ma lei mica.

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