venerdì 6 dicembre 2013
Lo sapevo che andava a finire così
lunedì 7 ottobre 2013
Le Sette cose da non dire ad una ragazza al primo appuntamento
7.
Alza gli occhi al cielo. E' l'unica cosa più grande di me.
6.
Non ho mai incontrato una ragazza così dolce nella mia vita. Posso leccarti?
5.
Sai che per colpa mia Rocco Siffredi è in analisi?
4.
Sai cambiare la ruota di una macchina?
3.
La mia lingua sa di ragù. Vuoi assaggiare?
2.
Sali su da me? Ho una collezione di peni in bronzo.
1.
Sei celiaca? Il mio uccello è senza glutine.
Mensole
it pareid
giovedì 19 settembre 2013
Chi è il Bastardo?
Scendo in fretta tutti i gradini che ci sono, dimenticando
anche i tic che oramai ripetevo dalla prima adolescenza. Il portone è già
aperto. Il collaudatore delle caldaie attende impaziente al citofono che
qualcuno gli apra. Il tatuaggio sul bicipite sinistro inizia a spazientirglisi.
Corro a zigzag tra escrementi di cane e volantini elettorali. Se c'è una cosa
che identifica l'arretratezza culturale di un popolo è proprio il fatto che non
ti lasciano far cacare il cane in luoghi puliti. E così lo deve fare, povera
bestia, in mezzo alle facce dei politici. Che poi non noti nemmeno la
differenza.
Salto i convenevoli con la vecchia del piano di sopra. Non è
il momento di commentare il costo della vita e la bruttezza degli sceneggiati Rai.
E poi puzza di apocalisse anziana.
Apro il portoncino esterno. L'amministratore di condominio,
e la sua alopecia, hanno deciso di posizionare il pulsante apriporta lontano
circa 10 metri. Ecco perchè non ti pago mai.
Esco alla luce del sole, ma la Panda che mi deve trascinare
via da qui non c'è ancora. L'sms “sto sotto" resta uno dei misteri
dell'antropologia contemporanea. Stai sotto, sì, a un acido.
Attendo appoggiato alle cassette della posta.
Arriva un uomo di 50 anni, brizzolato, con una tuta decathlon
sdrucita e l'aria affaticata. Lo riconosco. Lui non riconosce me. È quello che
fino a qualche anno fa sgommava sul suo mercedes SLK, in giro per supermercati
a rappresentare spalle di cotto e bresaola e croteggiare cassiere
insoddisfatte. Sta inserendo volantini nelle buche, trascinando un carrello da
spesa, quelli delle nonne, di tessuto scozzese. Gli regalo uno sguardo pietoso
dietro ai miei Rayban rettangolari opachi. Lo ricordo ancora, quando ci
squadrava, noi, fumatori di skank alle prese con i primi microfilmati di 144,
altro che youporn. Una sera ci puntò i fanali contro, per 3 lunghi minuti. Noi
restammo lì. Poco dopo, arrivarono gli sbirri, e fortuna che avevamo finito
tutto.
Ora tu sei qui ad infilare dita grosse nelle fessure
arrugginite della mia posta. Scivoleranno giù offerte di pannolini e
Jaegermeister. Crepa, maiale.Tu e i tuoi volantini del cazzo.
Aspetto che li abbia imbucati tutti, uno per uno, ben
piegati.
Poi li tiro fuori dalle cassette, con calma certosina e li
spalmo per terra. Fotografo lo scempio ambientale, che vergogna. E mando tutto
all'indirizzo mail sul volantino, alla voce “Segnala gli sprechi”.
E ora puntami questi fanali.
Mensole
biografia,
odio extravergine
mercoledì 21 agosto 2013
La fiamma è spenta o è accesa.

La stanza era poco illuminata. Una
decina di candele, posizionate a circa due metri da terra,
all'interno di nicchie ricavate nel muro di tufo. Le fiammelle erano
equidistanti. Se avessi tracciato una retta immaginaria tra loro
avresti ricavato un reticolato asimmetrico. Qualcuno aveva sbagliato
la disposizione. Nonostante tutto si riuscivano a delineare tutti i
profili dei presenti, e persino le emozioni abbozzate sui volti.
Chi aveva appena capito di essere
irrimediabilmente ubriaco cercava di recuperare la mascella che
pendeva inoperosa sorretta solo da guance emaciate.
Chi aveva puntato la sua donna per la
notte, rimandando di continuo l'approccio, ora non ne riconosceva più
la sagoma, e temeva che quella mano sulla spalla di un goffo barbuto
con la coda fosse la sua. Lo era.
Chi entrava nella stanza come se tutti
stessero aspettando lui, e ne usciva di lì a poco capendo che il
mondo, dopo tutto, gira anche senza il nostro misero apporto.
Chi aveva avuto la chiacchierata più
inutile della sua vita.
Chi cercava con la lingua una
scheggiatura di un molare.
Chi versava alcol in bicchieri così
piccoli che non facevi a tempo a girarli, che subito eri di nuovo al
bancone per la sete.
Le candele divennero nove. Una si era
spenta a causa del vento.
Vento non ce n'era, nella stanza. Forse
un alito improvviso, una voce alzata più del previsto. Luce ne
rimaneva, comunque. Di sicuro abbastanza per parlare a mezza bocca
senza che nessuno lo potesse capire.
Si spensero due candele. Tre sagome,
vestite di scuro, sparirono dietro una panca, inghiottite dal buio.
Sette candele maldisposte creano uno
strano effetto. Alcune zone sembrano illuminate a giorno. Altre
piombano nelle tenebre. Lì spariscono anche i suoni.
Tu controllavi tutto dal tuo posto. Al
sicuro, con una piccola candela posizionata poco dinanzi a te.
L'unica sui tavoli. Questo ti rendeva facilmente scrutabile dagli
altri. Vi, rendeva.
Una ragazza in abito a righe uscì. Si
spense una candela, la più alta di tutte.
Un uomo la seguì a passi più lenti.
Dovevano aver litigato, perchè lei scuoteva la borsa in pelle come
se fosse una bestia da punire. Un'altra candela si consumò al loro
passaggio, così come la loro storia.
La stanza divenne nera, con piccole
strisce di luce in quattro punti. Un ragazzo ubriaco indossava un
cappello da messicano. L'avevo notato da fuori. Bevuto tutto quello
che c'era da bere, continuava a parlare, presumibilmente da solo.
Smorzò una candela con le dita.
L'uomo dietro al bancone buttò le
ultime bottiglie vuote. Cercava uno straccio umido per pulire le mani
appiccicate, ma non lo trovò. Il giusto riparo in un sigaro, ma si
spense. Allora avvicinò la sua bocca alla penultima candela accesa.
Poi, con un soffio, la spense, proprio quando io spensi la nostra.
Ora non si vedeva più nulla.
O meglio, ora vedevo tutto quello che
avrei voluto vedere da dieci candele fa.
Mensole
storie
mercoledì 10 luglio 2013
Guida in 3a persona alla preparazione di risse con sconosciuti.
Non capita spesso che si lasci andare ad appuntamento di
cartello locali, organizzati alle ore 20 col chiaro intento di impiattare su di
un tavolone gli avanzi del pranzo, farti ascoltare quello che una volta era
trasmesso nella sala d’attesa dei dentisti e costringerti a stendere su
divanetti bianco coloniale più profondi di qualsiasi femore. Il tutto,
altrimenti detto, aperitivo cenato.
Non che F. disprezzi i neologismi, ma signora mia, aperitivo
cenato non si può proprio sentire. L’accezione “apericena”, poi, lo ha spinto a
prendere il porto d’armi. L’abbondante premessa, comunque, più che servire a
spiegare luogo ed ambientazione, era per
capire chi si ferma alle prime tre righe del post, commentando l'apericena.
Andiamo avanti.
Mosso a compassione e più assetato del solito, F. si alza in
piedi e si avvicina all’omino in cuffie, che per una ventina di euro stava
cercando di accompagnare le fauci alla moda di bellimbusti in Fred Perry e
signore in abiti fluo. Andava di sicuro meglio al pakistano delle rose, la
serata, impegnato a raccogliere una serie di “non stiamo insieme” e “siamo
tutti uomini”.
“Ce l’hai You spin me around dei Dead or Alive?”, chiede F.,
avvicinandosi all’orecchio del dj.
“Boh, mo’ vedo”, monosillaba il giratori di dischi, come se
stesse parlando con un ottantenne in fila alle poste. “Eccolo, ma la conosci
solo tu”, aggiunge poi con un sorriso beffardo e tartarico.
“Tu mettila e zitto”, chiude F..
Se la canto tutta. È il pezzo più anni ’80 degli anni ’80.
C’è tutto. I capelli lunghi, i guanti, i balli mani roteanti e ginocchia
flesse. Qualcuno applaude, la cameriera gli porta il suo Campari.
“Ma voi la conoscevate?”, chiede il disc jockey agli
avventori.
Dal fondo della sala, un ragazzo con gli occhiali da sole (e
se apericena si odia, quelli con gli occhiali da sole di sera non
sfigurerebbero a cadere dalle scale con le mani in tasca) fa: “Certo. Era
Bananarama dei Venus”
“No”, fa F.. “A parte che hai invertito i nomi. Bananarama è
un gruppo, e Venus era il loro pezzo. Ma si trattava di You spin me around dei
Dead or Alive”
“Ti sbagli”, fa quello.
“Guarda, giovane, che c’è anche scritto qui sul monitor, se
proprio non dovessi credere a me. Ma comunque fidati”.
“Guarda che lo conosco ‘sto pezzo, ed è dei Venus”, aggiunge
il tipo, mentre l’amico al suo fianco ride con una cannuccia incastrata fra i
denti.
“Ti ripeto, per l’ultima volta e poi chiudo qui, che i Venus
non esistono. Quando è uscito questo pezzo tu e la tua pettinatura non
esistevate ancora”, cerca di spiegare F., mentre il dj lo guarda allibito e
qualcuno riprende timidamente la scena col telefono.
“See, vabè. Informati meglio” e l'occhialuto fa un tiro di
sigaretta elettronica.
F. mastica il ghiaccio sul fondo del bicchiere.
Masticherebbe volentieri anche il bicchiere, se potesse. Fa un passo avanti, ma
poi torna al suo posto.
La serata prosegue, dimenticabilissima, come al solito.
Verso le undici, il tipo occhialuto si avvicina al tavolo di
F. e gli lancia un'occhiata senza senso. Poi fa: “sei ancora convinto ?”
F. lo guarda, e chiude: “Sai che sei utile all’umanità come
la carta da gioco dei punteggi internazionali?”, e va via.
Mensole
odio extravergine,
recinzioni musicali
mercoledì 26 giugno 2013
Una storia capitata al sottoscritto che vi prego di non divulgare
Svegliarsi in piena notte madidi di sudore, accorgendosi di avere un piede caldo sotto il lenzuolo ed un altro gelido che sporge dal letto, penzoloni. Il mangiacarte sul muro non fa un passo da giorni. E' vivo, e mi pare di sentirne il respiro. Mi pare.
Mi alzo che qui dormono tutti. Un sorso d'acqua, pipì. Bear Grylls avrebbe di sicuro dimezzato i tempi delle due operazioni. Sorrido a questo pensiero.
Torno verso il letto.
Appoggio la testa umida sul cuscino, poi ricordo che non lo uso più. Copro l'orecchio con un braccio. Intorno a me si gonfiano respiri pesanti.
Sto per riaddormentarmi.
Tre, due, uno. Arrivo.
Poi, il dubbio.
Perchè arriva il dubbio? E perchè proprio mentre sto riprendendo il mio fottuto, legittimo sonno? Dopo una giornata di scale fatte, telefonate ignorate, facce asimettriche a cui rispondere "sì, è vero", quando invece non era vero un cazzo, Devo dormire. E' un mio diritto.
Tu ti sei insinuato, dubbio. Sei salito da qualche parte, nella testa, e ti sei poggiato lì sulla fronte. Sinusite interrogativa. Ora hai accovacciato le tue gambe immaginarie, ed aspetti risposta. Solo che sono le 4, ed io la risposta non ce l'ho.
Potrei cercarla su wikipedia, in un attimo, con tre strisciate di polpastrello.
Il cellulare è lontano, chisaddove, scarico. Ma comunque spento.
Il pc dorme, e ci metterebbe comunque 12 minuti a prendere vita dal momento dell'accensione. Giuro.
Gli altri sono in coma. Chi etilico, chi controllato, chi letargico (il mangiacarte, presumo).
Non saprei come risolvere. Riprovo a dormire.
Niente.
Penso ad altro, ma controvoglia. Penso a lei.
Lei mi chiamava, mi scriveva, mi disegnava, mi cantava pezzi di canzoni ignote di cantanti ignavi.
Poi ha smesso.
L'altro giorno una terza persona (attenti alle terze persone, perchè sono quelle che in un modo o in un altro ci condizionano la vita. Non le seconde, nè le quarte. Le terze) mi invia una fotografia di un cucciolo di 40 giorni.
E' il suo nuovo cane. Suo di lei, non della terza persona.
E lei lo ha chiamato come me. Non so se si possa definire una cosa positiva. Ma mi ha fatto sorridere molto. Forse provo a risentirla. Le scrivo un messaggio. O forse no.
Ecco, diciamo che questo è un buon argomento per riprendere sonno.
Dai, che ci sono.
No. Niente. Ancora quel dubbio.
Una macchina parte lentamente dal parcheggio sotto alla finestra. Gente che viene e gente che va. Riesco a cogliere la canzone che dall'autoradio è dedicata alla partenza. Per me è fondamentale che sia all'altezza della situazione, anche se si dovesse trattare di un viaggio di 500 metri. Lui, o lei, questa notte ha scelto Perfect Day di Lou Reed. Non so se si stia augurando qualcosa per domani o stia degnamente concludendo l'oggi. Gran pezzo, ottima scelta, chiunque tu sia.
Ma il mio dubbio è sempre qui.
Verifico la lunghezza delle mie unghie. Corte. Benissimo. Pulisco i denti con la lingua. Stratagemmi innocui che non mi porteranno in nessun dove. Devo fugare, risolvere il dubbio. Eppure lo sapevo.
Aspetta, forse ce l'ho. Macchè, niente.
Riprendo coscienza grazie ad un raggio di sole che mi trapana un occhio. Sono le sette. Devo essermi addormentato, nel frattempo.
Ora non ricordo cosa non ricordavo.
Questo non mi è mai capitato.
Poi, ritorna il dubbio, e con esso la soluzione.
Come se l'avessi saputo da sempre.
Si chiamano tumbleweed gli arbusti rotolanti del west. Tumbleweed.
Figli di puttana.
Mensole
matassville,
postistintivi
lunedì 10 giugno 2013
Recensione del film "La pelle che abito" - (P. Almodòvar 2011)
Non mangerò mai più biscotti del Mulino Bianco in vita mia.
Mensole
consigli pratici
giovedì 23 maggio 2013
Vuoi perdere peso? Non chiedermi come.
Donne.
Una di voi ha messo al mondo me.

Una di voi mi ha fatto scoprire i piaceri della carne e
quelli delle corna.
Una di voi mi ha sposato.
Una di voi mi corrobora le giornate lavorative con i
riassunti delle puntate di Chi l'ha visto e Cucine da incubo.
Molte di voi lavorano (beh, lavorano), sedute scompostamente
alle loro scrivanie nei 90 mq del nostro ufficio, cercando di accavallare le
gambe senza sgualcire la gonna fiorata Desigual.
Altre entrano spesso nella mia stanza, a chiedermi conto
delle azioni dei loro compagni, spesso ingenui, altre volte chiaramente
desiderosi di tenere il piede in cinque scarpe diverse.
Ma nonostante tutto, a voi non potrei rinunciare.
Siete la parte migliore dell'esistenza.
Con la vostra capacità di capire il maschio e nonostante
tutto continuare a passarvelo tra le dita delle mani con grazia.
Vi amo.
Tranne verso la fine di maggio.
La fine di maggio dura molto più di quanto dica il
calendario. Il tempo si espande, i secondi diventano ore, come quando la radio
passa una canzone di Cremonini e ti auguri finisca il prima possibile, e quella
niente. Resta anche sotto alle gallerie più lunghe.
Le donne, quelle che conosco io, non sono più donne, verso
la fine di maggio. Sono altro.
Alla fine di maggio si moltiplicano i cataloghi.
Si diffondono dicerie sulle proprietà della bava di lumaca.
Il siero di vipera.
Il muco di scorpione.
Lo chatouche, altrimenti noto come “ricrescita dimenticata
lì”.
Le bacche di Gogj.
Dukan, tisanoreica, zumba.
Alcune donne, che hanno tenuto il collo protetto da un
morbido dolce vita fino a Santa Rita, scoprono pian piano gli effetti Serum 7.
La fine di maggio sembra non finire mai.
L'acre odore di Somatoline si espande per le condutture
dell'aria condizionata.
Non riesco a parlare con i fornitori.
C'è il filler da completare.
Le fragranze.
Contorno occhi.
Mesoterapia.
Drenaggio.
Non vedi l'ora che finisca, la fine di maggio.
Mensole
biondume,
la fine del mondo è vicina
giovedì 2 maggio 2013
Che fine ha fatto Ettore Aldimari?

Ero un uomo medio. Senza
pretese. Con le mie fissazioni. Mi pentivo di essermi tagliato la
barba, mentre la tagliavo. Allora lasciavo crescere i baffi.
Per lungo tempo ho lavato
molto più spesso la parte sinistra della mia bocca.
Ho dormito dieci anni
senza cuscino, poi non ne ho potuto più fare a meno.
Ero convinto di avere in
mano il destino del mondo, e ne rispettavo la sorte gestendo il
giusto numero di passaggi sugli zerbini che incontravo nel mio
percorso.
Guardavo con nostalgia i
capelli tagliati dal barbiere, cadere in terra ed essere calpestati
da quest'uomo completamente calvo. Non ci avevo mai fatto caso.
Davanti ai miei occhi
aprivano e chiudevano pub irlandesi gestiti da materani, centri
benessere nei quali poter prendere la tua epatite preferita, sale
scommesse affollate di illusi divoratori di unghie e diana bludure,
compro-vendo-presto-rubo-scippo oro.
Camminavo a testa bassa.
Non avevo pacche sulle
spalle.
Non avevo spalle.
Andare al lavoro, restare
a casa, perire in un maremoto non faceva differenza per me. Tutto
procedeva con una sorda, ovattata linearità.
Era un periodo buio.
Non c'erano social
network. Riuscivamo a sentirci soli senza bisogno di tecnologia.
Poi è arrivata lei.
Bella come una canzone
bella.
Segreta. Luminosa.
Misteriosa. Calda.
Capace di nulla, quando
più si ha bisogno di tutto.
In grado di ogni cosa,
quando non ci pensi, ormai, più.
Cambiandomi, molecola per
molecola, pensiero su pensiero, indefinitamente.
Poi è andata via.
Mensole
ettore aldimari
venerdì 29 marzo 2013
A me Marzo non è mai piaciuto (storia triste, poi speranzosa, poi)
Scendo in fretta, tre scalini alla volta, perchè
è irrimediabilmente tardi. La mattina è catastrofica. Questa volta lo scooter
l'ho parcheggiato in fondo al vialetto, pur essendo una zona in cui l'umidità
decide di sperimentare nuove forme di condensa semisolida. Schivo due gatti
guardinghi che ho deciso di non nominare, tanto comunque non mi degnano della
minima attenzione. A circa tre metri dal mio impregnato scooter c'è un omino
sulla settantina, intento a dipingere con certosina passione l'inferriata del
recinto. Indossa uno di quei cappelli da pescatore ingialliti da sole, ms e
sudore, e lavora di fino col pennello, stemperando un grigio temporale su un
ferro mm.3.
“Buongiorno”, gli faccio
“A voi. Andate a lavorare?”. A me il voi non
dispiace. Soprattutto dettomi da un anziano lavoratore piegato sulle ginocchia.
“Bè, si” faccio io, “e sono anche un po' in
ritardo”
“Dove lavorate?”
“Nell’Ufficio xyz, al Palazzo Arancione”, faccio
io.
Il vecchietto posa il pennello e mi fissa per
qualche secondo. “Io ho lavorato lì di fronte , per venti anni. Sturavo i
pozzi. Ci lavora anche Antonio. Lo conoscete?”
Lo conosco. Lavora a due passi dalla mia
finestra.
Riprende a parlare. “E' una bravissima persona,
sempre disponibile. Mi ha anche aiutato molto in un momento particolare della
mia vita. In quei giorni non avevo nessuno, e lui c'è stato. Senza chiedere
nulla”, aggiunge parlando lentamente, cercando di affinare il suo italiano
stentato.
Lo sguardo si fa lucido. Riprende a spennellare,
ma il suo braccio ora è molto più raccolto.
“Voi ditegli solo che lo saluta Gianfranco, il
pittore. Lui si ricorderà. E ditegli che...” Si ferma. Guarda il lavoro fatto
fino al momento preciso in cui mi ha rivolto la parola. Pare soddisfatto.
Io aspetto.
“E ditegli che appena posso lo passerò a
trovare”.
La voce è rotta dal pianto. Si tocca il naso col
polsino della camicia di flanella. Dice un'altra cosa che non capisco, ma mi
piace pensare che mi abbia salutato. Ficco il casco e mi passa un brivido
dietro alla nuca. La sagoma di Gianfranco piano piano rimpicciolisce nello
specchietto retrovisore, fino a svanire dietro l'angolo.
Ci sono momenti in cui vorrei che lo scooter si
ingolfasse. Non ho più voglia di andare al lavoro. Mi fermerei, se potessi, in
riva al fiume. Che anche se è beige e dentro ci nuotano solo le piattole, è
comunque il mio fiume, padre dei canneti che ancora si vedono da qui e di
generazioni di zanzare con le quali non ho ancora imparato a convivere.
Le braccia, invece, come al solito mi riportano
in ufficio.
Ora Gianfranco avrà finito la parte della
ringhiera che gli mancava. Starà passando la seconda mano, o si sarà fermato a
fumare? Qualcuno che lo aspetta a casa c'è? Un nipotino che gattona e presto
imparerà ad usare il telecomando prima che ad imparare le regole del
nascondino, un'anziana moglie pronta con il caffè del discount allungato nelle
tazzine di porcellana sbiadita e stinta? Non so cosa stia facendo Gianfranco
ora, in realtà.
Cerco con lo sguardo Antonio, fuori alla porta
del suo ufficio. Ma non c'è.
Sono passati alcuni giorni. L'inferriata è
bellissima. Mai uno squallido grigio è stato tanto splendente. Gianfranco ha
finito il suo lavoro e seduto a terra non c'è più nessuno. Sarà altrove.
Oggi, senza andare di fretta, sono arrivato con 5
minuti di anticipo. Il tempo è un cattivo amico. Si rende utile solo quando non
ne hai bisogno.
Mentre giro la chiave nella serratura, dalla
porta a specchio intravedo la sagoma di Antonio. Si sta accendendo la prima
delle mille sigarette che fumerà oggi. Torno indietro, gonfio il petto e mi
avvicino. “Qualche tempo fa ho conosciuto Gianfranco il pittore. Ti saluta
caramente.”
Sono orgoglioso. È come se avessi portato il
latte caldo ad un bambino con la gola gonfia e dolorante. So di aver completato
la mia opera.
Antonio mi guarda, fa un tiro lungo e, sputando
il fumo, mi fa “Se lo rivedi digli che è uno stronzo.”
E se ne va.
Io resto lì, con la mia solita faccia.
La faccia di uno che il tempo passa, e non ha
capito un cazzo.
Mensole
lavoro,
mi hanno chiesto
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