lunedì 28 febbraio 2011

Gola Profonda (nuovo almanacco degli uomini stupidi)


Secolo scorso. Stiamo procedendo lenti nel traffico. Di fianco a me c’è G., e sulle gambe di G., che attualmente tenta di sfondare nel teatro d’avanguardia, c’è una sedicenne dall’aria sbarazzina, coi capelli rossi legati, appassionata di trash metal. Oggi è architetto.
Dietro, altre quattro donzelle, in piena fase “teenager no-global, fight da faida, testamentoditito, preferisco non usare il deodorante”. Una di loro è diventata una fotografa affermata, un’altra anni dopo l’ha data ad un intero condominio di universitari strafatti, la terza somigliava alla Palthrow, la quarta no.
Alla guida, io. Di una centoventisei. La mia prima auto. O qualcosa che somigliava ad una prima auto.

Si tornava da una manifestazione, ministro boia, e tutti quei luoghi comuni e comunisti, con la sola voglia di spaccare il mondo al fine di conquistare donne col fascino di chi ha letto le prime 3 pagine del Capitale e sa chi sia Rosa Luxemburg. Dal groviglio di manine affusolate sul retro si cerca di creare un qualcosa che somigli ad uno spinello. In mancanza di autoradio, la colonna sonora è il jingle del The Twinings, come è ovvio che sia quando in 2 metricubi la quantità di ossigeno è pareggiata da quella di tiaccacì in combustione. I deflettori soffrono un po’ troppo.
All’altezza del quartiere più squallido di una delle città più squallide d’Italia, incrociamo una Pattuglia. Pattuglia è un termine, di per sé, orrendo. Un misto di pattume e poltiglia. Associarci anche il pericolo di farsi beccare la rende parola pericolosissima. Non ci avranno visti, dice G., dimostrando come i maschi non abbiano la benché minima capacità premonitrice che invece alcune donne, in special modo quelle alte 1,58 mt,  possiedono. Lo spinello in progress scompare all’interno di una kefiah sporca.
L’Alfa 75, frena, fa inversione a U, ci lampeggia. L’uomo in divisa si avvicina al finestrino e ci chiede di scendere.

La macchina dei clown. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette imbecilli. Quando l’appuntato chiede “Basta così?”, G. dice “No, ce ne sono altri 2 nel posacenere”. In quell’attimo ho immaginato di essere al cospetto del tenente Mattia Levi Goldstein. Tutto stava andando più che male.
Il graduato è furibondo. Blatera qualcosa in un dialetto incomprensibile ai più (la rossa sosteneva fosse tarantino, io sostenni che si doveva ficcare l’anfibio in bocca). Se avesse potuto mi avrebbe sparato ad una gamba.
Il sottoposto è tronfio. Prende il blocchetto dei verbali, si accomoda sul cofano dell’Alfa. Quanti articoli, quante norme violate. E poi, quegli occhi rossi. Vi distruggeremo, bastardi.
Il tenente prende la mia patente e legge l’indirizzo. Ha un attimo di esitazione. Tituba. Mi chiede se, per caso, trattavasi delle case di edilizia popolare.
Non erano affatto le case popolari. Abitavo da tutt’altra parte. Ma non ebbi timore alcuno ad annuire, perso per perso. Abbassai anche il capo, contrito, pentito, umile.
Lo Stato italiano si mosse a compassione e ci lasciò andare, sine multa, ovviamente in 4. Le altre 3 tornammo a prenderle dopo poco. Quel pomeriggio brindammo, l’unica volta nella mia vita, allo Sbirro Ignoto, che aveva avuto pietà di un finto essere.

Intanto, quel finto essere, lì per lì, ebbe l’illuminazione. A quest’altro non è venuta:
Lo fermano i Carabinieri e lui ingoia l'assicurazione
Pescara. Non ha avuto alcuna esitazione a masticare ed ingoiare il tagliando dell'assicurazione davanti ai Carabinieri, che lo avevano fermato per un posto di blocco. Protagonista della vicenda un 35enne di Montesilvano, fermato dai militari per un normale controllo stradale.  Probabilmente si trattava di un contrassegno falso o contraffatto; l'uomo comunque rischia la denuncia ed ha avuto il sequestro del veicolo.   qui 

giovedì 24 febbraio 2011

Bello è impossibile


La terapista dice che finalmente siamo pronti ad eliminare qualcosa di brutto dalla nostra vita. Ha ragione. Io inizierei con la terapista.

E sì. Me li risparmio volentieri questi € 200,00 circa al mese, utilizzandoli per questioni più importanti, rispetto al pur legittimo bisogno settimanale di nuovi occhiali da vista plurimarca della brevilinea psicoprofessionista. Duecento euro, alias £ 387.254, in più, fanno sempre comodo. Potrei acquistare una scimmia cappuccino, o, più comodamente, la fontanella della piazza di Montecchio Maggiore. Ci esce anche una WiiFit, ma mi hanno detto che la danno senza Juliana Moreira. O almeno questo stabilisce il Decreto Milleproroghe.

Comunque io saprei cosa farci, con queste sacrosante due piotte.

Invece vedo che alcuni non hanno chiara l’idea di cosa farci con i soldi. Mi capita di osservare le case attraverso le finestre, livello pianoterra. Dai vetri, quando non mi intralciano quelle deliziose tendine, scruto frammenti di vita quotidiana sottoforma di soprammobili in stagno e peltro. Divani in tinta col nulla celano pareti in drammatico spatolato veneziano. Drappi in macramè si appollaiano su cyclette carnielli, che ci guardano tristi da angoli semibui. Ancora troppe lampadine classe G vibrano da dentro lampadari a foglio piegato. Mignon di Rabarbaro Zucca sfidano in altezza la Gondola di Venezia, anche in versione con orologio fermo a lancetta timida. Microsculture cinesi insensate, con pixel cromatici in mercurio e piombo tetraetile, il tutto a figurare arcobaleni, discinte geishe tanto vicine alla nostra tradizione, simbolismi mistici dell'anno del spente, della scimmia, del drago. Enciclopedie vintage. Un libro di Nantas Salvalaggio. La macchina del pane, che maledice il Bimby dall'alto dell'ultima mensola, ove lo swiffer non può nulla, e la polvere prende vita, autonoma, in veste di nippoli capaci di autonutrimento, come piante fotosintetiche.
Il signor William Morris, di cui non sapevo nulla prima di leggere questa sua frase, e del quale probabilmente dimenticherò l'esistenza passata, non appena aprirò quella bottiglia di Montepulciano che mi attende fiduciosa, diceva: “La regola aurea, valida per tutti: non avere nella tua casa nulla che tu non sappia utile, o che non creda bello.”
Sull'utilità, c'è poco da discutere. Io, personalmente, non ho mai regalato un gioiello a chicchessia, in quanto preferivo virare su beni durevoli o semidurevoli, più utili e soddisfacenti: libri, sciarpe, borse, weekend. La torre di Pisa in resina scala 1: 560 è utile solo al venditore, che ci sgobba il 400% di utile. I centrini in pizzo sul congelatore, in soggiorno, sono utili solo ad innalzare il livello di questa mia descrizione. La tecnica dello spugnato effetto marmo è utile a far abituare il vecchio di casa alle tenui nuance della cripta di famiglia.
Sul bello, non riesco ad esprimermi. Non so se sia soggettivo o oggettivo. So solo che alcune cose non sono presentabili, a mio parere (soggettivo) ma non lo dovrebbero essere per nessuno (oggettivo). Perché sono brutte. E basta.

lunedì 21 febbraio 2011

Wait a Moment

Per colpa del riscaldamento terrestre e della globalizzazione, qualche giorno fa ho avuto l'influenza. La cosa non ha interessato molto la popolazione locale, fatta eccezione per mia moglie, a cui, non ha interessato per nulla.
Sono stato quindi depositato, come si fa con i rifiuti ingombranti e le batterie esauste, sopra al nostro divano, abbeverato a orari sparsi, cibato a distanza, basettoso. 

Le giornate scorrevano mogie, gli uccellini cinguettavano, i vicini copulavano, la lavatrice girava e mi faceva capire il perchè abbiano inventato i salva reggiseni. E proprio grazie al grazioso ed insopportabile clic-tick-strik-knicks del playtex tg. IV della Sig.ra che ho deciso di abbandonarmi a sonno e tv, nella più classica delle tradizioni del maschio italico.

Il resoconto di una mia giornata tipo, tra medicine e braccia rubate all'agricoltura è qui, sull'impunito sito dei tipi di Peprovocà.

mercoledì 16 febbraio 2011

Biondo Venere


nella foto, alcune bionde



Non divido mai per categorie. Non credo che le bionde siano meno intelligenti delle more, né che le rosse siano più stronze delle castane. Ma quello che sto per raccontarvi, disegna una profonda crepa nelle mie convinzioni.

Elenco delle cose realmente accadute alla mia collega bionda e svampita, nell’ultimo anno:

1)      L’alcolista con la 66 cl. di Peroni nella mano le si avvicina, scruta nel carrozzino ed accarezza la copertina bianca ed il cuscino, mugugnando qualcosa. Intanto il bambino, ipotetico destinatario della scomposta carezza, dormiva in braccio alla mia collega bionda e svampita.
2)      All’uscita dell’autostrada xxy (direzione yyx), il casellante, in un notevole ed elegante sfoggio di charme, le fa: “E’ il tuo colore naturale dei capelli, o sono costretto a scoprirlo da me?” La mia collega bionda e svampita rialza il finestrino.
3)      Un nostro cliente, neanche tanto assiduo, le chiede l’amicizia su facebook. La mia collega bionda e svampita, che non negherebbe il contatto neanche ad Ahmadinejad, accetta. Il primo messaggio lasciatole in bacheca dal tizio: “Lascia tuo marito e partiamo per una crociera.”
4)      Il tipo tossico che ti dà una penna e ti chiede se vuoi firmare contro la droga (no!), le si avvicina, le stringe il braccio intorno alla vita e le sussurra nell’orecchio, con alito probabilmente Mild, “Mi ricordi la Madonna”.
5)      Il piccolo della mia collega bionda e svampita dal pediatra piange molto, ha paura del medico. Il dottore pensa bene di aiutare il piccolo a fraternizzare con l’uomo col camice. Si rivolge alla mia collega bionda e svampita: “Abbracciamoci, signora, così il bambino capisce che non sono un nemico”. E la abbraccia, forte forte, senza neanche attendere risposta, per una trentina di interminabili secondi.
6)      Sei mesi fa, la mia collega bionda e svampita si inserisce in una chiacchierata, sempre su facebook, tra due fidanzati, che non conosce neanche di persona, ma vedi punto 3. Il suo intervento tende solo a ricordare che il titolo riprende un aforisma di Chopin (ne faceva anche lui, pare). Nasce una discussione furibonda tra i due fidanzati, lunga una decina di mb. Dopo una settimana i due si lasciano.
7)      La mia collega bionda e svampita deve recarsi a fare una panoramica ai denti. Chiede un permesso al capo e costui glielo concede. Ma la segue, e per non dare nell’occhio, si fa una panoramica anche lui. Infine, chiede alla mia collega bionda e svampita di anticipargli i € 40,00 occorrenti. Ella accetta.
8)      La mia collega bionda e svampita si reca presso un negozio di articoli per lo sci. Controlla l’eventuale presenza di persone all’interno dei camerini. Sceglie. Apre. Qui, vi trova un uomo di mezza età, completamente nudo (fatta eccezione per un paio di calzini bianchi di spugna), in posa plastica davanti allo specchio, in piedi sullo sgabello. Costui la guarda, impassibile, mantenendo la posizione. Lei scappa via.

La mia collega bionda e svampita è una brava ragazza. Ha una laurea. Lavora sodo. Le succedono delle cose.

lunedì 14 febbraio 2011

La mia Strage di San Valentino

Diciamo subito le cose come stanno.

Io non sono l’uomo perfetto che si può credere. Anche io ho i miei difetti. Ho una scarpiera piena di difetti.

Una volta bevevo orzata. Ho avuto un diario segreto. Ho alcuni boxer a righe. Ho fatto perfino volontariato in una bottega di commercio equo e solidale. Non ne vado fiero, ma è giusto dirvelo. La statua di Saddam non cadde, tenuta sbilenca da un’efficace sistema di rotelle haribò annodate col metodo Carrick, mentre una micro popolazione festante, formata da ghiottoni di kebap e squatter fighetti, lanciava grida osannanti. Non cadrà neanche la mia statua, ma è giusto ammettere le proprie colpe. Anche la più grande. Un 14 di febbraio di alcuni anni fa.

All’epoca frequentavo, da avventore saltuario, una casa in cui coabitavano molteplici figli di questa società cattocomuniscapitalistica benpensante. Uno di loro, in particolare, non prometteva nulla di buono. Aveva diverse decine di tic nervosi. Sentivi che stava per arrivare dal click dell’interruttore luce, uno sfrenato loop di circa 2 minuti, in entrata e in uscita. Leccava la polvere di toner, frenava in auto con la mano, per non spostare i piedi dal pedale assegnato loro. Si era tirato via un’unghia del piede vedendo una finale di Coppa Davis. Ed il tennis non gli piaceva neanche. Non fumava, ma chiedeva sigarette. Non beveva, ma nelle serate di sbornia era il primo a vomitare. Ingoiava viti, gettoni, biglie senza addurre motivazione alcuna. Alle volte lo trovavi a mendicare alla fermata del bus. Poi, appena ricevuto l’obolo, apriva il portafogli e lo posizionava in un mazzetto di banconote fior di conio, davanti allo sbigottito benefattore. Voleva che lo chiamassimo Raulgardini, per via di un difetto alla palpebra sinistra, ma in realtà si chiamava Fabio. Aveva l’herpes labiale. Sempre. Non sapevamo di cosa campasse, e lui non lo raccontava. Taluni dicevano spacciasse la bianca nei mercoledì universitari. Alcuni sostenevano che vendesse il proprio corpo ai canuti industriali dell’alta valle. Altri sostenevano che fosse un family banker di Mediolanum. Lui negava, sempre, sdegnato. Fabio era pessimo. Era ciò che nessuno voleva diventare.

Gaetano, invece, era perfetto. Troppo perfetto. Non parlava mai a sproposito, ti risolveva i problemi con una telefonata, sapeva a memoria capitali del mondo, ingredienti dei cocktail, marcatori di tutte le finali di coppa dell’epoca moderna. Ti sapeva dire se una donna era tinta, riconosceva il difetto del motore dal rumore post accensione. Ed aveva uno splendido sorriso. Lo chiamavano Foie, perché aveva un coraggio innato. Aveva salvato una bambina da un’auto in fiamme. Mi aveva regalato il suo Si, modificato con marmitta sito plus e  variatore. Da rappresentante d’istituto si era fatto tutte le bionde della sezione E, compresa Ezio, che all’epoca credevamo una dolce ragazzina coi genitori emigrati da Dortmund, ma le cose stavano diversamente. Suonava il pianoforte, il clarinetto ed il jambè. A Natale aveva regali per tutti. Gaetano era un simbolo. Era l’uomo che tutti volevamo essere.

Eppure, io, non glielo dissi. Io, quando scoprii il Fatto, non gli dissi nulla. Penserete sia un infame, una carogna. Ma lì per lì pensai non fosse il caso. Avrebbe potuto reagire male, perdere quell’aura di santità che si era creato, rovinare un’immagine pressoché perfetta.
Dovevo andare al bagno, per sciacquarmi le mani dopo che quell’idiota di Ugola aveva cosparso di olio per macchine da cucire tutti gli accendini presenti in casa. Diceva che era un rito di purificazione. Con le dita unte e maleodoranti, corsi in bagno e trovai la porta socchiusa. E, come il bullo della classe che cerca di spiare la liceale, dalla porta socchiusa intravidi Raulgardini che, senza ritegno alcuno, controllava lo stato delle proprie emorroidi con lo specchietto orale di Gaetano. Finita la verifica, lo specchietto tornò al suo posto, nel bicchiere degli spazzolini. Raul aprì la porta, dalla quale mi ero un attimo prima allontanato, mi salutò con un nome sbagliato, e  tornò in cucina. Io mi lavavo le mani ed osservavo il bicchiere. Lo osservai a lungo. Strofinai forte il sapone sui palmi scivolosi, quasi a voler togliere via, olio, sporco e ricordo di quanto appena visto. Mi preparai la frase. Il mio J’Accuse si andava formando. Conteneva citazioni dotte, richiami all’onore del maschio, cenni di igiene minima. Tornai in cucina trafelato e vidi Gaetano che si baciava appassionatamente con una tipa, conosciuta la sera prima. Raulgardini stava parlando con un gatto. Era il loro San Valentino.
Un tipo mi chiese qualcosa, ma non lo capii. Dovevo avere una postura particolare, perché mi allungarono una sedia. Vidi quei due, completamente presi nelle loro azioni, per qualche minuto. Poi, vigliaccamente, afferrai la mia giacca ed andai via, senza parlare. Non tornai mai più in quella casa.

Da allora non mi va di festeggiare San Valentino. 

mercoledì 9 febbraio 2011

Tema in classe: parlaci del tuo capo.



Il mio capo è un uomo non bello.
Il mio capo ha scarpe che non producono alcun rumore. Egli non entra negli uffici. Vi plana. Riesce a raggiungere il punto x non partendo dal punto y, ma creandovisi direttamente, quando tutti sono distratti alla macchina del caffè.
Il mio capo non beve caffè. Il mio capo non beve alcolici. Il mio capo beve superalcolici, ma esclusivamente a stomaco vuoto. Il mio capo ha l’ulcera.
Il mio capo usa vetyver. Non uno spruzzo. Versa uno shot di profumo direttamente sul petto. Se osservate bene gli si intravede del sale sul collo.
Il mio capo ha problemi ai denti, e per questo motivo non sorride mai. Una volta, a settembre, ha sorriso per una sua battuta. Il mio capo fa bene a non sorridere mai.
Il mio capo fuma 4 pacchetti di sigarette al dì. Egli fuma in ufficio. Quando è la stagione invernale, per rispetto dei presenti, egli fuma con la finestra spalancata ed il condizionatore d'aria a palla sui 35°, creando una corrente del golfo nel ghiaccio, che fa la felicità degli astanti.
Il mio capo lavora con il giubbino indosso, dal mese di ottobre al mese di maggio. Nei mesi estivi egli sfoggia dei completini frescolana color piombo. Nessuno ha mai visto le braccia scoperte del mio capo.
Le belle cose addosso al mio capo diventano brutte cose.
Il mio capo non si fida dei pc dell’azienda che lui dirige. Egli usa pochissimo il mouse, preferendo le accoppiate di tasti. Egli salva tutto ciò che fa su di un hard disk esterno che, per sicurezza, dimentica in giro per gli uffici. Il mio capo dice di essere esperto di linux. Il mio capo crede che le celle unite di excel ce l'abbiano con lui.
Il mio capo utilizza per lo più intercalari e avverbi. Fa sfoggio di centinaia di “quant'altro”, da vero esperto. Sei lì che attendi il tuo turno, ed eccoti una sfilza di “ciò detto”. Sei sovrappensiero, e ti becchi liberi carpiati di “assolutamente”, in senso positivo e in senso negativo. Scegli tu.
Il mio capo non dà auguri a natale, a pasqua, ad ognissanti. Il mio capo dà del lei a tutti, fatta eccezione per l’impiegato omosessuale, che si becca un Tu, deciso.

Per un anno ho raccontato tutto ciò ad una ragazza che conosco, attraverso la maledetta chat di facebook. Per 12 mesi ho elencato i particolari, i tic, le manie di quell’uomo. Ignoravo, perché lei non me lo diceva e non ho mai capito perchè, che il mio capo e questa ragazza si frequentavano da un po’. Si sposeranno il 22 maggio. Epic Fail.

lunedì 7 febbraio 2011

In vino veritas


Dalle Tenute Marchionne. Gradazione bassa. Passito remoto delle colline piemontesi, ancora per poco, da uve di provenienza aprutino-elvetica. Un vino deciso, che non lascia spazio alla trattativa. Lontano dagli ordinari canoni, presenta un intenso sentore di nocciola americana con lontani e prossimi richiami di sapori polacchi, messicani e serbi, ed una struttura delocalizzata. Al primo assaggio risulta sapido, fine ed armonico, ma alla lunga rivela un retrogusto molto amaro, che lascia spesso a bocca aperta. Il periodo di affinamento in casse integrazioni di quercia del texas, varia dai 12 ai 36 mesi e circa 6 mesi in vetro, prima di essere messo in vendita.
L'instabilità e la precarietà del vitigno, conferiscono al vino un breve periodo di invecchiamento in bottiglia, tanto che è alta la possibilità che il prodotto degeneri in aceto in tempi rapidi.
È un vino costoso e pregiato, indicato per le portate finali, adatto ad accompagnarsi con carni da vacche magre e dividendi alti. 

giovedì 3 febbraio 2011

Iniziano i decenni. (fottiti, amedeo)


Io me li ricordo gli inizi dei decenni. 

L’alba degli anni ‘00 la passammo a lavorare sodo. Sudavo duro, tra palchi, irrealtà, siae e spinotti, per portare a casa una misera pagnotta, bastevole a stento a pagare “acnofobia”, la chiattona della copisteria che mi sorrideva, troppo, quando le chiedevo la copia del libro di esegesi, e poi mi pentivo di essere nato. Quando mi vide con la Profezia di Celestino sotto al braccio, mi scambiò per il suo Messia privato. Il mio numero di cellulare divenne panepessuoidenti fino a quando non mi laureai, cambiando pettinatura, recapito e disponibile predisposizione verso qualunque donna del mondo infame. Tolsi anche l'orecchino, ma in fin dei conti non mi stava poi tanto bene. L'11 settembre del 2001 stavo litigando con un obeso che poi ha fatto carriera nel mondo delle coop rosse. Ci fermammo, in preda al terrore, davanti alle immagini della prima torre che cadeva. Ci furono lunghi minuti di silenzio, qualche colpetto di tosse. Poi gli dissi: ”sei una grandissima testa di cazzo”. Friends era il nostro Vangelo quotidiano.

Me lo ricordo bene l'inizio del decennio '90. Nonostante avessi un testone fuori dalla norma, mi piacevo. Si era nel pieno del ciclone adolescenziale, e le partite di pallone con gli zaini come pali lasciarono il posto alle complicate sceneggiature per costruire credibili avances all'altro sesso. Jovanotti non trovava una sua dimensione, e noi non potevamo fare altro che mettere in soffitta i berretti Boy ed i bermudoni xxl, che tanto giovavano alla nostra crescente pubertà, in costante ricerca di terre senza limiti e confini. Prendemmo un bastardino al canile, un dono della natura pelmunito da 15 kg, che un giorno masticò droga leggera e impazziva al rumore di un sassolino incastrato sotto agli anfibi del suo giovane padroncino. Gli anfibi li lasciai in soffitta quando iniziai a manifestare contro tutto. Un giorno presi le mie cose, e senza neanche il sacco a pelo me ne andai in campeggio al nord. Avevo 16 anni, e mia madre mi supplicò di prendere precauzioni in caso di rapporti sessuali non protetti. Gli dissi che se fosse accaduto, trattandosi dell'iniziazione del suo primogenito, avrei offerto Tamarindo a tutti i lettori di Cuore presenti. Offrii. Alcuni concittadini nei 3 mesi del Golfo fecero “accaparramento”. Credo che quelle scatole di sardine sotto’olio stiano ancora nei loro garage.

L'inizio degli anni '80 è più sfumato. Papà registrava le nostre voci su un radiolone a maxitorce e ce le faceva risentire. Non ci credevo che quel rauco ed insensato sgorbio fonico fosse la mia voce. Ancora oggi nutro forti perplessità. A casa, e non ho mai capito perché, si sentiva solo Bennato, e nei sogni di bambino la chitarra era una spada. I miei temi li chiudevo sempre con una poesia. Quando camminavamo in città speravo sempre che non ci ficcassimo in un fottuto negozio di biancheria per la casa, che odiavo, insieme al suo commesso ruffiano, all'insopportabile odore di naftalina, ai lunghissimi corridoi, scuri e silenziosi. Mi piaceva Clara, la più bella della classe, ma lei aveva scelto un altro, il più duro e tozzo, il cui padre, tra l'altro, si chiamava Adolfo. Non mi ci arrischiai mai, fino al giorno in cui una mia serie di calembour da settenne avanzato, la fece ridere così tanto che mi diede un bacio in bocca. Il mio primo bacio in bocca. Il figlio di Adolfo pianse, poi si riprese e mi minacciò di morte scrivendolo col gesso sui muri di tutto il plesso scolastico. Clara riscelse lui. Oggi fa la telefonista della Vodafone. Clara, the number you have dialed is no longer valid. Villeneuve sorpassava anche la vita, e Reality di Sanderson mi fece conoscere il walkman. Nonostante questo, e tanto altro ancora, di quei giorni, quelli in cui ti accorgi che tua mamma ti ha sempre vestito male, trattengo un momento unico: io che mi fermo, inebetito ed ammirato, davanti alla figura di una 127 sport, blu scuro, col fascione nero in plastica. Dentro si agitavano convulsamente quattro figure picaresche sulla ventina, ridendo come matti ed ascoltando a volume indegno un pezzo dei Supertramp (mi piace pensare così, ad onor del vero la mia conoscenza musicale dell’epoca si fermava, appunto, agli ultimi 3 album di Bennato).
In quel momento decisi che era quella di quei 4, la vita che avrei voluto vivere. È andata un po' diversamente.



Si ringrazia, per gli spunti, questo.