venerdì 29 aprile 2011

Per dire


Decapaggio. 
Se qualcuno se lo fosse mai chiesto, questa è la parola che in assoluto mi piace di più. Immagino che molti di voi, prima di addormentarsi, pensino ai termini che adoro. Vi comprendo.

Non m’importa cosa voglia dire, è un aspetto che non ho mai approfondito. So che riguarda il mondo dei coiffeur, delle estenuanti sedute al parrucchiere, ed è più possibile che esca da bocca femminile che non maschile.
Mi piace il suono, quel salto dalla “c” dura alla “p”, che si conclude in una soave doppietta “gg”, dolcissima e armoniosa. Batte di poco il termine Flop, nella mia speciale ed interessantissima classifica a due.

Altro discorso per le parole che non amo. Fino a qualche tempo fa se la battevano Semplicistico e Collirio.
Messi male stavano anche Macchinario, Discrasia e Monorchio, che sarà pure un cognome, ma comunque inascoltabile.
Poi grazie ad una dipendente dell’Azienda, la classifica si è sconquassata. Come quando un disco neanche tanto stimato diventa un tormentone, e scala vertiginosamente posizioni.

La tipa è una piccola record woman nell’ambito dei procedimenti disciplinari. Dal biasimo verbale alla multa, se li è praticamente fatti tutti. Assenze ingiustificate dal posto di lavoro, timbrature truffaldine, insubordinazione, sono le medaglie d’oro del suo palmarès. Ho provato più volte a farle capire quanto sia prezioso un posto di lavoro al giorno d’oggi, a tempo indeterminato, con stipendio fisso, 14 mensilità. Il fatto che fosse part-time le permette anche di fare un'altra piccola attività, in modo da gestire un’entrata dignitosa alla fine di ogni mese. Ma lei non capisce. E dire che ha superato i 45 anni ed è madre di famiglia.

Non lavora in sede. Ma eccola lì in sala d’attesa, a scribacchiare non so cosa sul touch screen del suo cellulare. Mastica un chewing gum. Attende di parlare, con la sua responsabile, di non so cosa. E infatti non lo sapremo mai. Appoggiata al banco della reception si avvicina una signora alta poco più di un metro e cinquanta. Dall’accento e dall’aspetto si capisce immediatamente che non è italiana. Chiede qualcosa alla receptionist. Questa la fa passare. La collega fa un balzo dalla sedia, lancia il telefonino sull’altra poltroncina. Mette una mano sulla spalla della signora. Le dice che c’era prima lei. La strattona, urla, sbraita. La receptionist fa per calmarla, ma lei è inviperita. Le viene spiegato che la signora doveva andare in un altro ufficio, ma non vuole sentire ragioni. E dice “arriva, questa, e mi passa davanti. Se li lasciamo fare, questi diventano i nostri padroni. stranieri di merda”. La parola che scala la classifica è Merda. Quando viene urlata con disprezzo, verso qualcuno che non c’entra nulla, assume tutta la sua valenza. È una parola che puzza. Che fa male. 
La “straniera” ha indietreggiato, e si è seduta, guardando spaesata un separè in cartongesso, scrostato all’altezza della sua testa. La “collega” ha sbattuto la porta d’uscita e se ne è andata. La sua responsabile ha provato a fermarla, invano.
Questo succedeva quindici giorni fa. Da quella porta, oggi, è dovuta rientrare per restituire la divisa da lavoro ed il tesserino identificativo. Merda.

lunedì 25 aprile 2011

Serbo Rancore


C’è un ristretto gruppo di terrestri, che ho incrociato in questi anni, che hanno veramente esagerato con me. Sono quelli che non hanno giustificazioni.
Non che mi auguri il loro male, ma neanche alcuna cosa positiva. E riguarda solo loro. Non voglio coinvolgere nessun parente, nessun amico di famiglia. Mi rivolgo solo a loro, dio delle città. 
N. è uno di questi.

Ci fece aspettare più di un mese per dirci se la casa in affitto fosse libera o no. L’avevamo vista, alle nove di sera alla luce di una torcia, e ci era sembrata graziosa. Ecco, graziosa fu il termine che usammo. Eravamo con l’acqua alla gola, alla ricerca di un appartamento. Quando si è in difficoltà, si vedono le cose con occhi differenti. Le forme mutano, i colori si vivacizzano, si vede chiaro laddove c’è fuliggine, trasparente nello smerigliato. In quel periodo ero un neolaureato con contratto di collaborazione coordinata e continuativa. La mia ragazza, commessa e studentessa universitaria. Un discreto, precario, reddito. Quei 50 metri quadri erano un sogno.

Prima della nostra, N. aveva dovuto vagliare una serie di richieste, e fatto le opportune verifiche circa le mie referenze. Aveva telefonato in ufficio, si era informato per bene. Un collega di un’altra filiale, una specie di Robin Williams in notevole sovrappeso, aveva speso qualche buona parola per me. Lo stesso dicasi per le verifiche al supermercato. Neanche l’Agenzia delle Entrate usa tanto scrupolo.

Dopo 30 giorni di indagini, finalmente, mi arriva la chiamata e le sospirate chiavi. L’appartamento, in una palazzina a due piani, era a circa 50 cm. sotto il livello del mare. Il gatto non riusciva a trovare una posizione per dormire che fosse degna di questo nome. Dovevamo capirlo subito che c’era qualcosa che non andava. La carta da parati in sala era stata applicata da poco. Perché qualcuno doveva attaccare mq di fogli al muro per poi andare via? La macchia di umidità diametro 60 confermò le prime timide risposte. Dal soffitto, pendeva la canna fumaria di una stufa, ma la stufa non c’era. Da quel tubo, scendeva senza ritegno il cavo dell’antenna. La cucina era con la bombola di gas. Il riscaldamento era centralizzato e la signora 85 enne del piano di sopra lo gradiva dalle 19 in poi, i vicini con la bimba appena nata, preferibilmente al mattino. In pratica era sempre acceso. Quattro famiglie, ventidue modi di vedere le cose: le scale si pulivano a turno, una settimana noi, una settimana nessuno, una settimana noi. Non fu un caso se mi venne l’asma. Nessuno si meravigliò quando lo sciacquone si ribellò alle leggi della fisica ed implose. La porta dello sgabuzzino rimase chiusa per mesi, a causa di una maniglia spezzata durante una banale apertura. Causa copertura interna in eternit, il garage non lo usammo mai. Stavo giocando a Max Payne, quando sentii come il rumore di un violino scordato. Mi voltai di scatto, ed osservai la libreria a muro di Ikea (mod. fuori produzione) che si inarcava, perdendo il suo carico di carta da copisteria fronte facoltà, per riposarsi poi nell’angolino della stanza, tra calcinacci freschi e macerie di casa in affitto. I fischer si portarono via 2 kg di intonaco. Prima di andarcene e maledirla per sempre, nella topaia ci organizzammo un rave party, al solo scopo di ricordare ai vicini quanto fosse bello fuggire da quel posto dimenticato da tutti. Al fresco aroma di piscio di cane.

N., che in italiano sapeva dire solo “fine del mese”, per darcela in affitto aveva dovuto richiedere le mie referenze. Per dire.

Qualche mese dopo la fuga, ripassammo per ritirare la posta vecchia. Il tugurio era stato già rioccupato. Ci viveva, cronaca vera, un pentito della camorra sotto copertura, in compagnia di una bagascia e i figli di non so chi. Referenziatissimi, immagino.

lunedì 18 aprile 2011

Posso resistere a tutto, tranne che alle trenta azioni


Raccolta di 30 cose, situazioni e persone che, se non ci fossero, la mia vita sarebbe migliore (o poco meno peggiore):
  1. il tipo del tg1 che fa i servizi sul carnevale e i beauty center per cani
  2. gli automobilisti anziani che non mettono più la freccia
  3. gli automobilisti anziani che procedono a 22 km/h
  4. gli automobilisti anziani
  5. gli smanettoni che “hai poca ram”
  6. i vigili urbani della mia città che non mettono la cintura
  7. gli esperti che mi dicono “piccoli figli, piccoli problemi; grandi figli, grandi problemi”
  8. facebook
  9. il west highland white terrier dei miei vicini di casa
  10. le scuse mai originali della mia signora
  11. le persone che “il petrolio uccide l’aria ma le pale eoliche rovinano il panorama”
  12. i giornalisti sportivi della Rai
  13. le ultime 50 canzoni di Vasco
  14. le ultime 100 canzoni di Pino Daniele
  15. le ultime 250 canzoni di Lucio Dalla
  16. le canzoni di Biagio Antonacci
  17. gli interlocutori che “assolutamente”. Ma assolutamente Si o assolutamente No?
  18. le piccole ma letali differenze tra open office writer e ms word
  19. quelli che chiamano al telefono e chiedono “con chi parlo?”
  20. i casellanti della società autostrade
  21. i guidatori convinti che mettere le 4 frecce sia il lasciapassare per fare ogni genere di cazzata sull’automobile
  22. il ciclismo
  23. tutto quello che viene trasmesso in tv tra le 15 e le 20
  24. i fidanzati di Scarlett Johansson
  25. il barista che ci porta qualche caffè in ufficio, che ha licenziato la barista lituana che ci portava molti caffè in ufficio
  26. Luca e Paolo
  27. l'arte della ceramica
  28. chi ti chiede dove andrai in vacanza solo per dirti dov'è che andrà lui
  29. le donne convinte che all’uomo possa fregare qualcosa se la scarpa che indossano costi € 1,00 anziché € 450,00, se la borsa sia di A.Martini o di Gherardini, se lo scaldacuore sia di Fornarina o di Gucci.
  30. i criceti.

lunedì 11 aprile 2011

Olfatto


La luce è violacea. Attorno a me una mandria di diciassettenni a torso nudo salta all’impazzata. Folate di cannabis si spostano seguendo il movimento dell’aria. Capelli legati, dreadlocks senza ricordo di acqua linda. I bassi se la cavano piuttosto bene. Era da un po’ che non andavo ad un concerto serio, e devo ammettere che mi mancava. Mi mancava il rischio di beccarti un adolescente di due metri in pieno metatarso. Mi mancava la perquisizione del carabiniere bolso all’ingresso. Non mi mancava il vino rosè ghiacciato.

All’improvviso, proprio tra un finto black out e l’immancabile “chi non salta, Berlusconi è” (lo feci ad un concerto dei Litfiba nel ’94, per la prima volta, ma lui è sempre lì e nel frattempo la metà di quegli spettatori lo avrà anche iniziato a votare), mi arriva al naso un profumo conosciuto. Troppo casino olfattivo per riconoscerlo al primo assaggio. Provo a spostarmi di qualche passo e lo perdo. Allora torno sulla mattonella di prima. E rieccolo. Fruttato. Lo porta una ragazzina. Profumo di donna. Il profumo della mia prima volta.

Lei era parecchio stronza, mi lasciò, e io la cercai. Poi fu lei a cercarmi. Quando la lasciai commisi l'errore di lasciare una porta aperta. Lei provò a rientrare, ma si fece male. Da allora, se può, mi evita. Si è trasferita. Era una ragazzina che voleva fare la giornalista. Invece fa teatro di strada, mette il cappello in terra, balla, canta, beve, fuma. In ordine decrescente. Una volta la nonna ci beccò durante un convulso amplesso, io mi nascosi sotto il letto, e spezzai i miei occhiali da vista. Restai lì per  mezz’ora. Le conoscete queste vecchierelle che iniziano a parlare sorridendo. Brutto segno. La nipote ascoltava, la nonna raccontava di quando non so cosa avesse ritrovato in un baule, e intanto io, in compagnia di un paio di ciabatte e un esercito di acari, restavo in attesa sotto il letto. Coito interrotto da anziana cantastorie.
Dicevo, quel profumo. Lei aveva una sorella, più grande, ed una sera di inebriamento collettivo ci scappò una sorta di gioco a tre. A dire il vero era tutto un po’ annebbiato. L’unico protagonista certo era un Rum che non so chi aveva riportato da Cuba. Il ricordo si fa confuso. Ma qualcosa successe.

Mentre racconto il tutto alla mia collega bionda, questa mi chiede se è vero che quello è il desiderio sessuale principale di noi maschi. Entra un’altra impiegata, e un’altra ancora. L’interesse cresce. Io dico che non mi dispiacerebbe.
“Il solito maschilista. Due donne a tua completa disposizione. Due schiave, magari. Ma come fai a pensare che poi queste due ci stiano?”. Non lo penso. Mi avete fatto una domanda, allora rispondo.
Allora, facciamo due uomini e una donna. “Ecco.” aggiunge una di loro, “Il tipico uomo in branco. Una donna a vostra completa disposizione. E’ questa prepotenza che non sopportiamo.” Non sopportiamo chi?

Forse ricomincio a fumare.

mercoledì 6 aprile 2011

Laurea non c'è


“Se c'è una cosa che non sopporto sono le persone che vogliono comandare in casa mia.”
“Non mi piacciono gli ipocriti.”
“Odio i prepotenti.”
“Disprezzo la gente falsa.”



Alcuni tra gli esseri umani che si siedono davanti alla mia scrivania in mdf dalle 8 alle 14, ci tengono a dirmi queste cose.
Come se io fossi uno psicologo. O come se fossi un astrologo.
O, peggio ancora, come se mi dovessi meravigliare ad ascoltare tali, straordinarie, caratteristiche.
Una cosa che accomuna ognuno di questi bipedi è il possesso di un titolo di studio universitario.
Triennale o vecchio ordinamento, sto parlando del pezzo di carta altrimenti detto Laurea.
Si, quella che devi fare tanti esami. Quella che se non ce l'hai blablabla. Quella che ti apre le porte. Quella che poi ti cantano dottoredottoredottore nel buco del, e ti mandano affanculo e tu ridi. Le matte risate. 
Sono tutti bravi professionisti laureati. Ma servirà a qualcosa?
Voi direte “Ma chi ti credi di essere, aldimari?”. Forse avete ragione. Però moderate i termini.

Allora butto giù un paio di considerazioni sfuse da laureato deluso.
Un articolo di un giornale che non leggo mai mi ricorda che Steve Jobs, Bill Gates e Mark Zuckerberg non hanno la laurea. A un certo punto hanno deciso di fare da soli. Uno ha decomposto il suo Atari e fondato la Apple. Un altro è partito da un garage e, con degli occhiali più grandi di Isernia, è diventato l'uomo più ricco del mondo. L'altro ha scopiazzato qua e là, ed ora ha 500 milioni di amici che “gli piace”. Tutti senza laurea. La cosa mi ha fatto pensare.
Si, vabbè, queste cose succedono solo in America.

L'idraulico che mi ha sostituito la doccia, l'anno scorso è stato in vacanza a Miami e quest'anno, a causa della crisi, andrà solo in Patagonia. Quando ha visto la pergamena in cornice mi ha fatto tante domande sulla facoltà, sui costi, sugli esami. Mi ha detto che lui non se l'è mai potuto permettere, e che avrebbe voluto farlo. Allora ha ripiegato sulla “fatica”. Che gli rende 5 volte quanto rende a me il lavoro. Ha la terza media. La cosa mi ha fatto pensare.
Si, ok, ma è un discorso da bar.

Il ministro più potente d'italia ha fatto le serali, ha mezza faccia storpia ed inespressiva e l'ultima cosa comprensibile che ha detto, dopo un rutto, è stata “fora dai ball”. Non ha uno straccio di titolo. La cosa mi ha fatto pensare.
Si, d'accordo, ma, ecco, insomma, nel senso che, a conti fatti, in re ipsa. Porca troia.

venerdì 1 aprile 2011

Ma com'è bello qui, ma com'è grande qui


Buttavo gran parte dei migliori anni della nostra vita tra riunioni di gruppi politici giovanili e live etilici su palchi sgangherati, in compagnia di un sennheiser con filo. Per una serie infinita di sere sono uscito alle 21 e rientrato alle 4. L'abat jour acceso era il terzo braccio di mia madre. “Dove sei stato fino a quest'ora?”. “Là”. Ho vinto sempre io.

L'amico ricchissimo si innamora di una ragazza di Non è la Rai. Le invia 101 rose rosse. La tipa apprezza, allargandosi anche con un invito ad incontrarsi. Lui si prepara per due settimane. Cerca di scartavetrare un'acne che si era ormai imposta su tutto il suo volto. Mangia per 10 giorni bieta e carote bollite, bevendo succo di pompelmo e sgranocchiando gambo d'ananas. Fa saune, brucia chili. Fuma parte della Foresta Amazzonica. Quando parte, è una nuvola di vetyver e buone intenzioni, il tutto unito ad un'ambiziosa scorta di settebello. 
Com'era bello. O, quantomeno, questo è quello che gli diciamo alla stazione.
Il treno porta con sé un diciottenne speranzoso, libidinoso. Al ritorno ci riporta un ragazzino deluso, pallido, spento. All'appuntamento capitolino con la tizia erano stati invitati in 5. Gli altri quattro soggetti rappresentavano il campionario più triste di postadolescenti disturbati. E non esisteva ancora internet. La giovine ballerina boncompagnesca li aveva accolti in una stanza degli studi Fininvest del Palatino. Si erano seduti su un divanetto fiorato sdrucito, come pretendenti alla mano della figlia del sindaco di Coppola Pineta Mare, con mazzi di fiori, tuboni di Baci, peluches di ogni fattezza e razza. 
C'era chi si era preparato versi di Neruda, chi balbettava, chi “sei bellissima”, chi “sei bravissima”, chi “dov'è un bagno?”. Lei si produce in sorrisi di circostanza, chiede i loro nomi, fa un po' di moine, domanda di ipotetiche fidanzate. Ignora di essere la costante visione delle polluzioni dei cinque. L'incontro dura una ventina di minuti, e poi d'un tratto eccoli congedati, congelati. Il rumore dei cuori spezzati si udì sino a San Giovanni. Lui non vide più la trasmissione, e le augurò di tutto. Il viaggio sul treno l'aveva passato a maledirsi, a piangere lacrime amare, a stracciarsi le unghie delle mani, a consumare cicche di catrame, respirando a fatica l'insopportabile puzza dei vagoni. Non ci degnò di sguardi e parole.
Iniziò a cambiare, a negarsi, ad ignorarci. Per più di un anno non si fece più vedere. Qualche chiacchiera da bar lo fantasticava immerso negli studi universitari. Altri lo davano partito in cerca di un'identità.
Dopo qualche anno leggemmo un articolo sul giornale. Era diventato segretario di una sezione di Alleanza Nazionale, in non so quale cittadina adriatica. Lo avevamo perso. 
Lei, la Ragazza di Non è la Rai, invece, ha fatto di meglio.