Decapaggio.
Se qualcuno se lo fosse mai chiesto, questa è la parola che in assoluto mi piace di più. Immagino che molti di voi, prima di addormentarsi, pensino ai termini che adoro. Vi comprendo.
Non m’importa cosa voglia dire, è un aspetto che non ho mai approfondito. So che riguarda il mondo dei coiffeur, delle estenuanti sedute al parrucchiere, ed è più possibile che esca da bocca femminile che non maschile.
Mi piace il suono, quel salto dalla “c” dura alla “p”, che si conclude in una soave doppietta “gg”, dolcissima e armoniosa. Batte di poco il termine Flop, nella mia speciale ed interessantissima classifica a due.
Altro discorso per le parole che non amo. Fino a qualche tempo fa se la battevano Semplicistico e Collirio.
Messi male stavano anche Macchinario, Discrasia e Monorchio, che sarà pure un cognome, ma comunque inascoltabile.
Poi grazie ad una dipendente dell’Azienda, la classifica si è sconquassata. Come quando un disco neanche tanto stimato diventa un tormentone, e scala vertiginosamente posizioni.
La tipa è una piccola record woman nell’ambito dei procedimenti disciplinari. Dal biasimo verbale alla multa, se li è praticamente fatti tutti. Assenze ingiustificate dal posto di lavoro, timbrature truffaldine, insubordinazione, sono le medaglie d’oro del suo palmarès. Ho provato più volte a farle capire quanto sia prezioso un posto di lavoro al giorno d’oggi, a tempo indeterminato, con stipendio fisso, 14 mensilità. Il fatto che fosse part-time le permette anche di fare un'altra piccola attività, in modo da gestire un’entrata dignitosa alla fine di ogni mese. Ma lei non capisce. E dire che ha superato i 45 anni ed è madre di famiglia.
Non lavora in sede. Ma eccola lì in sala d’attesa, a scribacchiare non so cosa sul touch screen del suo cellulare. Mastica un chewing gum. Attende di parlare, con la sua responsabile, di non so cosa. E infatti non lo sapremo mai. Appoggiata al banco della reception si avvicina una signora alta poco più di un metro e cinquanta. Dall’accento e dall’aspetto si capisce immediatamente che non è italiana. Chiede qualcosa alla receptionist. Questa la fa passare. La collega fa un balzo dalla sedia, lancia il telefonino sull’altra poltroncina. Mette una mano sulla spalla della signora. Le dice che c’era prima lei. La strattona, urla, sbraita. La receptionist fa per calmarla, ma lei è inviperita. Le viene spiegato che la signora doveva andare in un altro ufficio, ma non vuole sentire ragioni. E dice “arriva, questa, e mi passa davanti. Se li lasciamo fare, questi diventano i nostri padroni. stranieri di merda”. La parola che scala la classifica è Merda. Quando viene urlata con disprezzo, verso qualcuno che non c’entra nulla, assume tutta la sua valenza. È una parola che puzza. Che fa male.
La “straniera” ha indietreggiato, e si è seduta, guardando spaesata un separè in cartongesso, scrostato all’altezza della sua testa. La “collega” ha sbattuto la porta d’uscita e se ne è andata. La sua responsabile ha provato a fermarla, invano.
Questo succedeva quindici giorni fa. Da quella porta, oggi, è dovuta rientrare per restituire la divisa da lavoro ed il tesserino identificativo. Merda.