domenica 16 dicembre 2012

E ho anche ripreso a fumare




Aldimari, la vedo pallido e assorto, come presso un rovente muro d’orto. Cosa le è capitato?


Dottore, è successo qualcosa di poco comprensibile nel mio già labile sistema emozionale.


Si sieda, e mi racconti.


Non vedo sedie.


Faccia come se esse fossero qui.


Dottore, lei è molto saggio. Ma resto in piedi.


Proceda.


Ero al reparto ortofrutta, all’interno del mio ipermercato di fiducia. La radio in filodiffusione, che in questo periodo oscilla tra Do you know it’s christmas cantata dai piccoli orfani dell’Alfasud a So this is Christmas suonata dai minatori del Belgio, ad un tratto si trova a trasmettere Teardrop.


E sarebbe?


Un pezzo dei Massive Attack.


Non li conosco. 


Gliela canto: “ Love, love is a verb – loove is a doing word – fearless on my breath…” 


Mi ricorda la sigla di Phineas e Ferb. Lei è comunque un pessimo interprete.


La sigla di Phineas e Ferb è diversa.


A me la ricorda. Vada avanti col racconto.


Sì. Teardrop è una canzone che ha segnato in maniera profonda la mia vita. Una volta ero in auto sul ciglio di una stradina di campagna, e stavo accarezzando il seno di una splendida ragazza. E’ vero che lei continuava a chiamarmi Fernando, ma questo non mi impediva di proseguire professionalmente quel romantico  petting. La radio passò  Teardrop. Una vettura impazzita perse il controllo e ci prese in piena portiera. Ruzzolammo per svariati metri, risvegliandoci al pronto soccorso. Si ricorda, invece, quando rimasi bloccato in ascensore per 2 ore, al Palazzo delle Menti? C’era Teardop, in loop, nell'impianto audio. Può bastare?


Può bastare. Continui con il reparto ortofrutta.


Mi guardo a destra, e mi accorgo di aver riconosciuto un infermiere di allergologia. Ha una felpa maculata con una frase ripresa dall’oroscopo di Breszny. “Le talpe del Nicaragua bevono la linfa delle mangrovie solo durante le giornate di sole. E’ quello che da oggi farai anche tu, Bilancia. Dissetati della linfa della vita quando c’è il sole”. Lei sa che Breszny inventa tutte queste cazzate affinchè noi perdiamo il fine settimana a cercare di metterle in pratica? In Nicaragua non ci sarà neanche una talpa, e se c’è, non legge Internazionale.


E cosa fa l’uomo in felpa?


Si allontana verso il banco delle banane. Poi lo perdo. Dopo un istante lo rivedo, ma questa volta ha un giubbotto in pelle, jeans stretti e stivali alti. È vestito come una rumena. E si trova ai surgelati. Come avrà fatto, mi domando. Teardrop è a palla. Corro deciso verso le banane. Non ce n’è nemmeno una. Terminate. Non è mai capitato. Un supermercato non può non avere banane. Credo sia contro l’ordinamento costituzionale.


Beh, invece può capitare. Magari l’infermiere le ha comprate tutte.


Ne dubito. E perché si sarebbe cambiato d’abito?  E come mai c’è una donna diversamente alta al suo fianco, coi capelli rosso vermiglio e panna? Quando è stata autorizzata la costruzione delle casse veloci? Perché non c’è la cassa “anziani che non sanno distinguere le monetine tra loro e quindi passano lunghi minuti ad osservarsele sulla mano callosa”? A chi piacciono, realmente, i datteri?


Ettore, non capisco. Cosa è accaduto dopo?


Sono stato affiancato da un uomo che aveva appena acquistato uno di questi piccoli babbo natale scalatori. Ha presente quelli che si appendono ai balconi? Ecco, io li odio. Ma il mio non è un banale fastidio. È più disprezzo per chiunque li sfoggi. E quindi ho preso a insultare l’uomo. Non mi sono lasciato intenerire dalla lieve zoppìa e dall’apparecchio acustico. Per me andava messo in riga.


Ma non le è sembrato di aver esagerato?


Forse ho esagerato nel momento in cui ho scaraventato degli ananas contro la vetrinetta di swarosky. Lì l’intervento della vigilanza ci stava. Un po’ meno i calci sul coccige, ma andavo bloccato in qualche modo.


Ettore, lei mi nasconde il vero problema che l'assilla. Di cosa si tratta?


Una donna.


Avevo intuito che c’era qualcosa. 


Beato lei, dottore, almeno ha qualche certezza. Io neanche quella di non capire. Sbatto contro gli scogli dell’impossibile. Vorrei sovvertire le leggi naturali. Divenire suono. Abitare a Bilbao. Riflettere al buio. Credo di essere innamorato. L’ho capito da alcuni segnali. Leggo fogli bianchi. Aspetto bip. Insulto etichette. Vendo pellicine. Allaccio espadrillas. Lei è mai stato innamorato, dottore? Ha presente quel senso di assoluta padronanza del nulla, che la porta a disattendere dopo qualche istante ciò che ha giurato prima? 


A dire il vero, no.


Quello. 
Le mie palpebre provano pena per me.

venerdì 23 novembre 2012

Di amari scadenti, lettere ignote e battaglie ormonali.



Erano passati pochi minuti da quando aveva lasciato il bar. Sulla lingua ancora l'acre sapore di quel composto di erbe medicinali ed addensanti chimici. Pensò agli operai della distilleria, alle loro narici assuefatte, alle mogli insoddisfatte, all'infamia dell'umidità, al lento sonnecchiare degli autisti di tram in pausa. Indossò il casco e gli parve molto più stretto di prima, come se l'alcool si soffermasse sulle tempie degli umani, espandendole a dismisura. Secondo questa filosofia, Simone dovrebbe avere la cirrosi, pensò. Ma si convinse che era une delle sue pericolose elucubrazioni del tramonto.
All'imbrunire, era convinto di avere le idee giuste per migliorare la vita. Il dopo cena, invece, rovinava tutto. Gli ingranaggi delle abitudini ne avevano fotocopiato l'esistenza in grigie pagine, con la ripetizione di parole sempre uguali, ed un susseguirsi simmetrico di §. Ignorava cosa significasse §. La vedeva ergersi lì, appollaiata in tastiera sulla U accentata, ma non se ne curava. E non voleva che una maledetta wikipedia soddisfacesse la sua curiosità. Anzi. Da quando è nato il web, o l'internet, come dicono quelli ai quali sparerei nella rotula e mi ci farei fotografare sopra, è terminato il dubbio, l'amletico dilemma, la lunga curiosità, l'attesa dell'esperto. Qualche click, ed anche un piastrellista può diventare di colpo esperto hegeliano, astrofisico conclamato, urologo ricercato. Non è giusto. Allora lui rinunciava coscientemente a sapere. E § restava un mistero nelle pagine routinarie della sua vita.

Percorse al contrario la strada che aveva fatto più volte, nell'ora precedente.
Si era fermato a pisciare su un albero, mentre sotto ai suoi piedi il fertile terreno sembrava quasi sprofondare. Le luci di un Fiat 128 vinaccia ne segnarono le ombre sul platano. Era così lontano da casa sua che non gli poteva interessare se quell'anziano guidatore potesse essere un guardone o un amico di famiglia. O entrambe le cose. Lo scooter era parcheggiato in discesa e gli ci vollero quattro energiche dondolate per farlo sbloccare. Riprese la provinciale accostando sul lato destro, e permettendo a grassi Suv di sorpassarlo bestemmiando.
Andava da lei. Ma non ne era tanto sicuro. Lui non voleva una storia, un amore, una tacca sulla corteccia. Voleva lei. Lei era qualcosa di diverso. Nei suoi occhi aveva visto cose che non era mai riuscito a leggere in nessun’altra. Lei li aveva abbassati, la prima volta, ma per studiarlo meglio. Lui aveva fatto un passo avanti, come una moviola di milonga, e lei aveva accettato il passo. E da quel gioco di sguardi e pelle sfiorata, lui non aveva capito granchè. Quando era convito di potersi avvicinare, lei non c’era più. Quando lui si allontanava, veniva chiamato a sé. Aveva imparato ad essere sorpreso nella delusione ed illuso nelle certezze. Ma a lui piaceva quasi questo affogare, da bustina del thè soddisfatta di andare a fondo perché sa di poter toccare la cima del miele. Era impossibile resistere. Era impossibile giocare. Ma pur sapendolo, lui continuava a stare lì.

Un segnale stradale divelto lo mise in guardia. Era davvero brutto. Un monito. Pensò ai piccoli indicatori di difficoltà che aveva incontrato nella vita. Significherà qualcosa, aggiunse, quasi sussurrandoselo nel casco taglia S che gli comprimeva la scatola cranica. Per quanti neuroni potesse contenere quando pensava a lei, poi, figurarsi che danno. Imboccò con curva larga la strada dissestata che lo portava dove lei, probabilmente, non lo stava aspettando. Cercò l’auto di lei, parcheggiata in mezzo a 10. Era lì. Un odore di farina e diesel lo distrasse. Non mi piace questo posto, disse. Se vedo qualcosa di strano, riaccendo e vado via, concluse. L’istinto gli suggerì di chiudere gli occhi, il buio avrebbe fatto il resto. Così nulla sarebbe stato strano, lei sarebbe uscita, gli avrebbe sganciato il casco, avrebbero fatto l’amore lì, per strada, sul terreno fangoso solcato da battistrada spaccati, e sarebbero fuggiti via, a tremila km di distanza dall’inutile fluire delle cose quotidiane, per rifarlo ancora e una volta ancora, più sporchi di prima. Passarono due, o forse venti minuti. Lei non c'era. Lui aprì gli occhi, e si accorse di aver parcheggiato a due metri da un tombino, dalla cui fessura spuntava mezzo copertone di auto, all’apparenza ancora gonfio, come un mutante rimasto incastrato tra il mondo sotterraneo e quello, ben più scontato, di quassù. Indubbiamente, la cosa più assurda che gli fosse capitato di vedere negli ultimi tempi. Un segnale chiaro che da lì bisognava andarsene al più presto.

Accese lo scooter. Biiiip, biiiiip. Il cellulare vibrò energicamente nel tascone, all’altezza del petto. Era lei. Un messaggio lo fermò. Sarebbe dovuto partire lo stesso, ignorare quell'avviso, perché sapeva che vederla per un momento gli avrebbe solo fatto male. Avrebbe dovuto scrivere: “Sono sulla strada del ritorno. Mi dispiace. Sarà per un’altra volta”. Come faceva lei. Ma non partì. La vide per un momento, che poi divennero due, tre, otto. Sempre troppo pochi. Tante parole che si accavallavano, sgomitavano, al solo scopo di tenere fuori dalla porta le parole che andrebbero dette, e invece non si dicono.
Poi ripartì, con un amaro in bocca più devastante del veleno che aveva trangugiato al bar, e si avvolse la sciarpa intorno al collo. Lasciandosi alle spalle lei, i suoi capelli legati, le cose che non capiva e quella mezza gomma che spunta da un tombino. 

martedì 13 novembre 2012

Dita





22.09.2011
Avrei barattato il mignolo della mano destra in cambio della voce di Billy Idol. Non tutta. Mi sarebbe bastato saper dire “drink”, come lo pronuncia lui in Dancing with myself.
Alla fine che me ne faccio di un mignolo?
Sulla tastiera del pc utilizzo solo gli indici.
Applaudo sbattendo le prime tre dita sul palmo della mano opposta. Quindi il mignolo è sacrificabilissimo. Il sinistro, meglio ancora.
Non lo uso nemmeno per slide to unlock. Andiamo, il mignolo serve a poco.
A meno che non siate Joseph. Si, perchè Joseph ha una tecnica molto particolare nell’utilizzare le dita. Secondo un suo protocollo, anche se con mani appena lavate, chiunque può toccare qualsiasi oggetto sporco, col semplice utilizzo dei due mignoli, salvaguardando l'igiene del corpo. Come se, appunto, i mignoli non partecipassero alla vita attiva della mano. E lui, coi suoi mignoli, riesce ad alzare oggetti, va da sé putridi, di portata oltre i 20 kg.
Joseph non parla. Ha smesso. Di mestiere è tecnico audio sulle navi da crociera. Un lavoro che odia, ma chi non lo odia? Ebbene, 5 anni fa, mentre smontava un impianto allo stato terminale, in coda ad un raduno trance-polka di ferrotranvieri in pensione, uno sbalzo di tensione lo ha lasciato per 7 secondi a vibrare sul pavimento della Sala Orchidea, in pieno Oceano Indiano - direzione Mauritius. Terminata l'esperienza extracorporea, Joseph si è rialzato, ha tolto un po' di segatura dal suo parka e si è allontanato, fendendo il piccolo gruppo di fasulli che si era creato intorno alla sagoma fumante del risorto, mentre la strobo continuava nel suo infame lavoro.
Da quel giorno, Joseph ha cessato le comunicazioni col mondo esterno.
Fischietta.
E fischietta solo Shout, dei Tears for Fears.
Ad esser pignoli, ferma il refrain a “i can do without...”, lasciandoti col dubbio che quel sospeso non si concluderà mai. E resti con quel “c’mon” fermo, sull'epiglottide.
Non ho mai capito se fischietti quando è felice, perchè Joseph non ride mai.
O quando è triste. O quando è indaffarato.
Comunque vada, quando meno te l'aspetti, parte il pezzo, un sibilo che attraversa gli incisivi e si adagia, comodo, nei tuoi timpani.
“Joseph”, gli faccio “Film Bianco da me e poi in chat?”
Cenno.
La notte, alle volte, col nick ahiMaria, navighiamo nei social adescando bolsi ragionieri sposati. Alcuni implorano l'indirizzo di casa, altri fanno i poeti, i più avanguardisti minacciano il suicidio. AhiMaria è sprezzante nei commenti, molto aggressiva, estremamente mascolina. Sarà perchè è un uomo. Ma piace molto.
Questo passatempo è l'unica cosa che diverte Joseph. È rapidissimo nel digitare frasi acute, al limite del minaccioso. Riesce a prevenire la reazione dell'interlocutore invisibile. Inserisce un rametto di liquirizia tra i denti come fosse un toscano ammaccato, e batte ferocemente le sue dita, mignoli compresi, sulla tastiera nera, nella stanza nera, della casa nera.
Io lo osservo ammirato.
Dopo un po' sputa la radice, si alza, prende il parka e va via sbattendo la porta. E pensare che ci troviamo a casa sua.
Non sai se rivederlo dopo un'ora, un giorno, un anno. Joseph non avvisa. Dà tre colpi al citofono, e sai che è lui.

03.01.2012
Joseph oggi ha un livido su un braccio e lo sguardo basso. Ignoro cosa gli sia successo. Uno spintone in metropolitana. Un commento sbagliato su Hendrix. Non so. 
Casa sua è un coacervo di stracci, chitarre scordate, bollette dimenticate, minacce di creditori. E una lettera di incarico per una crociera di metà gennaio. Lazio, Toscana, Costa Azzurra, merda varia. Midi files in sequenza casuale, tremila euro in contanti, neri e subito, alcool. Un altro viaggio inutile.
Benestanti bronzei di melanoma ed entusiasmati pleonasmi umani a galleggiare con lui. È che le pagano troppo bene, le settimane di lavoro sull'acqua. Joseph le passa tra uno spinotto e uno spinello, watt e volt. Sguardo basso e mani all'opera. Conosce tutte le calzature degli ospiti. Espadrillas a febbraio, pvc infiammabili, sneakers da un rene e mezzo. Ma le facce, quelle no. Non le reggerebbe.
Prendiamo un thè, amaro. Parlo solo io.
Lui, come al solito, è di spalle, alla credenza, che fa finta di pulire fornelli mai adoperati. Questa volta non vuole partire, lo so. Piange. Vado via.

13.01.2012
“Alle ore 22,35 è partito l'allarme. La Concordia, verso le 21.40, ha violentemente speronato una scogliera a circa 500 mt dalla spiaggia dell’Isola del Giglio. Si è inarcata sul lato destro. I 4000 passeggeri hanno raggiunto le scialuppe di salvataggio con notevole difficoltà. I soccorsi sono stati attivati a partire dalla 23,00. Le squadre hanno recuperato, al momento, 18 corpi. Il numero dei dispersi è di 120 unità”

29.01.2012
“Nessuna speranza di trovare superstiti all'interno della Concordia, adagiata su di un fianco nei pressi dell'Isola del Giglio. Sale dunque a 30 il numero dei morti, mentre mancano all’appello 3 dispersi. Si tratta di 2 turisti ed un membro dell'equipaggio, un tecnico del suono”

20.09.2012
Le mattine sono sempre uguali. Ora seguo i principi del feng shui. Lo specchio è nell'altra stanza. La testa sta a nord-est e le piante a sud-ovest. La casa non è più nera. L’analista mi ha consigliato di dormire nudo. Ma io non dormo più. Un caffè insignificante in una tazza sbreccata. Ho lasciato crescere i baffi. Non piacciono a nessuno. Ecco perché li ho lasciati crescere.
Oggi ho un colloquio, ma so che chi mi siederà di fronte avrà passato la notte fumando crack, o leggendo Coelho, e non so cosa gli faccia più male. Prendo le chiavi dal mucchio di carabattole distese sulla mensola penzolante, all’ingresso. La confusione depositata si adagia su di un fianco come percolato in una discarica mal progettata. Apro la porta mogano sbiadito dell'ingresso e metto un piede sulla crosta terrestre. Squilla il telefono di casa. Non squillava da mesi. Avevo anche dimenticato la suoneria. Alzo la cornetta. Dieci secondi di silenzio. E poi, dall'altra parte, un fischio. Shout, Shout, let it all out, these are the things I can do without…
E poi silenzio.
Clack.

Figlio di puttana.

mercoledì 24 ottobre 2012

Le facce dei cani che mi guardano dalla macchina davanti


Quando scriverò un libro lo intitolerò “Le facce dei cani che mi guardano dalla macchina davanti”. Perché un buon titolo ed una bella copertina fanno la metà delle fortune di un libro. L’altra metà è la capacità di scoparti l’editor della casa editrice. L’altra metà ancora è data dalla tua preparazione in matematica – reparto insiemistica.
E questo tomo non tratterà affatto delle facce dei cani che mi guardano dalle macchine davanti, perché sull’argomento sarei capace di scrivere solo poche ma intense righe. A meno che non mi offrano tanti denari. In questo caso, auspicabile, mi soffermerei su cosa stiano pensando, realmente, in quel momento i cani. Poi mi sposterei sulle razze che sanno tenere la bocca chiusa e quelle che invece tengono il muso spalancato. Poi parlerei della lingua penzoloni. Ed a quel punto la metà di chi ha comprato il libro lo chiuderà. L’altra metà sfoglierà velocemente le pagine per capire se dopo accade qualcosa. L’altra metà cercherà invano la mia foto sul risvolto della terza, per poi correre a ripassare matematica. E così via.

Il fatto è che le cose sono cambiate, e parecchio, da quella sera d’agosto.
Io non ballo. Se lo faccio sembro il cursore sul monitor, quando aspettiamo che si carichi una pagina. Avanti – indietro – avanti, e poi su, e poi giù. Un attaccapanni col parkinson. Se però bevo, ed ho spazio intorno a me, me la cavo.
La situazione era pressappoco quella.
Unò duè, unò duè. I calzari di scena ai miei piedi, utilizzati fino a pochi minuti prima in un’improvvisazione su una balla di fieno, erano completamente sbrindellati. La cosa incomprensibile erano i lacci, che a questo punto avevano vita propria e si spargevano come tentacoli sulla pista polverosa. Musica medievale.
Avete mai ballato musica medievale con scarpe di juta e lacci che raggiungono il mezzo metro di lunghezza ad intrecciarsi tra piedi di alcolemici danzatori? Se sì, terminate qui la vostra lettura e tornate nella vostra stanzetta, che tra poco passa il dottore a visita. Se invece non l’avete mai fatto, fatelo.
Le braccia iniziavano ad andare per conto proprio, sull’onda dell’irrefrenabile suono di un oboe calpestato da un trampoliere. L’altro agitava le sue ali di stoffa, rendendo la scena più onirica di quanto meritasse la gradazione alcolica che percorreva le nostre vene. Avevo compiuto gli anni da pochi giorni e questo mi aiutava a far reggere l’alibi del non riconoscere nessuno tra chi mi gira intorno. “Scusa, era buio….sai, le lenti a contatto…..c’era troppa gente, non t’ho vista…………sarà stato il fumo delle pannocchie abbrustolite”. Eravamo in 3 o 4 a ballare. Ma quel laccio, arrivato oramai a sei metri di lunghezza, non poteva più stare lì. Avrei potuto ammazzare un intero squadrone di narcos in fuga, col semplice movimento della caviglia. Dovevo porre rimedio a quell’abnorme ricrescita. Mi accovacciai provando a far girare il laccio intorno al piede.
Che fai?”, mi dice una tipa, alle mie spalle.
Niente, è troppo lungo. Provo ad arrotolarlo”, faccio io, ancora piegato in due. Non prometto nulla sulla dizione usata per il termine “arrotolarlo”, in tali condizioni di lingua, salivazione, equilibrio mentale.
Se ti aiuto, dopo balli con me?”. Mi giro per vederla, ma è tutto molto confuso. Fumo, labrintite.
Certo. Per così poco…” sono un asso nella materia Frasi sbagliate nel momento giusto.
Aspetta”, fa lei, e con le due mani lo strappa, riportando il tutto ad una misura più umana. Sì, lo ha strappato con le mani. Un laccio. Io non avevo mai visto nulla del genere. Una che trancia un laccio in due è capace di tutto. Mi conviene ballarci, chiunque essa sia.

Mi ricordo una festa della donna. Facevo il quinto anno del liceo e distribuivo una mimosa ad ogni ragazza all’esterno della scuola (sì, l’ho fatto. E allora?). Ad un tratto sento una manata sulla spalla, come se un camionista mi stesse per chiedere se avessi visto la griglia anteriore del suo Scania in giro per la città. Invece era una ragazza, o meglio, pareva una ragazza. Grossa, coi capelli unti ed un bomber vinaccia. “A me non me la dai?”, mi chiede con la voce di Califano, o giù di lì. “Figurati, tieni” e le metto in mano tutti i mazzetti rimasti, fuggendo spaventato.

Ho ripensato all’aneddoto in una frazione di secondo. Poi ho incrociato lo sguardo della ballerina, e non era il camionista dell'8 marzo. Non proprio.
Qui i ricordi perdono aderenza con il terreno su cui poggiano, che spesso è scosceso, melmoso. Si confondono con cose mai accadute, con le cose pensate, immaginate. Rimembro una canzone mai suonata. Si perdono le facce delle persone che abbiamo avuto intorno e la scenografia va svanendo come se cancellata da un colpo di spazzola, quella che ti danno i camerieri dopo che hai spruzzato il Viavà sulla macchia.
Quello che non si dimentica è cosa si è provato. Soprattutto se in quel momento, e subito dopo, e dopo ancora, ci si è risentiti vivi.
Poi è arrivata l'ambrosia. Della gente. E di quello che è successo resta solo una foto.
Ed un bacio non dato.

Perchè in fondo, Aldimari, tu sei un coglione.

Lo pensa anche quel Jack Russell nella Micra.

venerdì 5 ottobre 2012

Questo titolo non ha a che fare col post.



Un uomo decide di voler fare, per motivi che non possono essere divulgati a terzi, uno yogurt in proprio. Senza ingredienti aromatici, solo yogurt fatto di miliardi fermenti lattici vivi per i quali vorrei sentirmi quasi un padre.
Cosa meglio di google per farsi dare esaurienti spiegazioni. Ricerca “Come fare lo yogurt”. Risultato: 701.000 pagine indicizzate.
Addirittura 701.000 pagine dedicate all'argomento, e solo in italiano.
Chissà se volessi fare un caleidoscopio. 80.100 pagine. 'azzo. Su dieci persone che vogliono farsi uno yogurt, 1 preferisce un più comodo caleidoscopio. Che batte anche “come fare un succhiotto” che ha solo 16.700 pagine dedicate. Provo allora "come fare un succhiotto con lo yogurt e un caleidoscopio". Nulla. Strano.

E se volessi fare un quadro? Avrei a disposizione 874.000 pagine belle pronte a farmi diventare un artista. Il doppio delle pagine utili a capire come fare un colloquio di lavoro (382.000). Segno che in Italia l'arte conserva la sua importanza, a discapito della ricerca di un impiego, dannati disoccupati col pennello in mano. Interessa così poco il lavoro, che “come fare un nodo alla cravatta” ottiene 37.500 pagine indicizzate. La metà di “come fare un cunnilingus” (84.600) e un decimo di “come fare un fucile” (443.000). Tutto questo non ha senso. 

Ma ancora meno senso ce l'ha il fatto che la domanda più importante della vita, che è “come fare soldi”, ottenga 3.060.000 pagine. Un buon risultato direte voi. Per dinci, diranno quelli tra voi che hanno subìto molestie da piccoli. E non sbagliate. Ma non è che la metà delle pagine dedicate a “come fare un sito internet” (6.330.000).
L'italiano ha una sua logica? No.
Internet è lo specchio della società? Sì.
Non ci credete? Problemi vostri.
Come fare un dito (il dilemma di noi tutti): 694.000 pagine.
Come fare l'amore (magari un porno, no?): 5.300.000 pagine.
Come fare un cazzo (disegno a mano libera o accidia?): 4.090.000 pagine.
 
Trionfa “Come fare un indice”: 11.700.000 pagine.
Per dinci, perchè?

giovedì 27 settembre 2012

Normali contrattempi nel bel mezzo di una notte d'agosto


Finisco lo spettacolo alle 23,30.
Salgo sullo scooter che è da poco passata l’una.
Imbocco il vialetto di casa che sto dormendo già da 3 km.
Trovo un uomo davanti al portone d’ingresso.
Mi fa: “Avrebbe mica una tenaglia?”
All’una e trenta di notte no, non ce l'ho una tenaglia.
“A cosa le servirebbe, di grazia?” Quanto mi piace usare il “di grazia” nei colloqui di tutti i giorni.
“La chiave non entra nella toppa. C'è un impedimento. Mi creda”
Ma io gli credo. Ha dei mocassini troppo brutti per non credergli.

Ho un coltellino.
E una torcia led rubata dai cinesi (si, lo so, mi vergogno un po'. Non di rubare, ma di andare dai cinesi).
Illumino l'interno della serratura e vedo che c'è una specie di rametto, forse una spiga, ben conficcata. Qualche piccolo, tenero, simpatico e paffutello bambino del cazzo lo avrà inserito con dedizione, chissà a che ora, così da impedire l'apertura a tutti i condòmini.
L'uomo che cercava la tenaglia mi guarda un po' impaurito. Forse non si aspetta che uno come me vada in giro con coltello e torcia.
Non riesco ad estrarre nulla.
E non riusciamo ad entrare. 

Citofono a mia moglie. “#ç§!!*@zz0”. Normale reazione. Cerco di spiegarle. Dopo un minuto mi apre. Il tizio mi lancia un'altra occhiata spaventata, sbiascica qualcosa, e sale in fretta le scale.
Arrivano due condòmini che abitano al piano terra. Loro, di solito, entrano dal garage. Mi guardano armeggiare e cercano di aiutarmi. Il primo corre a prendere una pinza, l'altro una torcia più potente.
Io sono accucciato davanti al portone e continuo nelle delicate operazioni di recupero.
Alla fine mi giro per prendere aria, ed entrambi mi guardano come se stessero guardando un alieno.
“Si, capisco le vostre facce. È proprio una cosa strana questa. Chissà chi è stato?”
“Eh, già”, ma non mi sembrano tanto convinti.
Nulla da fare. Alla fine decido di smontare il tutto per poi rimontarlo al contrario, tanto dall'interno non serve la toppa.
E così si salva il portone.

Il vicino di casa 1 mi invita a prendere uno jaeger da loro. Ci accompagna anche il vicino 2. Mi siedo in giardino, accomodandomi su una fredda sedia di metallo bianco. È tardi.
Arriva la moglie di 1 con un vassoio pieno di superalcolici e ghiaccio.
Si avvicina al tavolo, piano. La sua espressione, vedendomi, cambia. Eppure il coltello è tornato in tasca. Forse ho sudato troppo.
Bevo l'amaro in fretta. Ho molto sonno. Lo spettacolo è durato fin troppo e non vedo l'ora di stendermi con la finestra spalancata.
Saluto a bassa voce i vicini e prendo la strada delle scale. Li sento bisbigliare. E poi sorridere.

Entro in casa e mi tolgo al volo i vestiti, lasciandoli sull’uscio del bagno. Sono distrutto. Mi fermo davanti al lavabo.
Sciacquo le mani ancora al buio. Poi accendo la luce. Le nuove lampadine a risparmio energetico saranno anche ecologiche ed attraenti, ma ci mettono 20 minuti a dare un'illuminazione decente. Mi guardo allo specchio, e la mia immagine inizia a comporsi, lentamente. E vedo che i miei occhi sono contornati
da un pesante trucco nero. E’ il mio trucco di scena. Non l'ho tolto.
Sembro un panda. Sono sempre sembrato un panda, per tutta la sera. Da ore. Ho riparato una porta
con la faccia di un panda. Ho parlato ad altri, come panda.

Ecco perché.

domenica 2 settembre 2012

Più di un mese di assenzio




Avete presente quando sapete di dover fare una cosa, ma poi scientemente non la fate? Io no.
A me non è mai capitato. Di solito, se programmo, faccio. Ed ogni anno, agosto è programmato come il mese dell’odio. La sublime arte della misantropìa.
In questo caldo ed asfissiante mese del 2012 i miei sensi hanno avuto modo di incontrare, e detestare visceralmente, in ordine sparso:

-Le persone che l’hanno letto su Focus. 
Io una volta ci ho letto che il cucchiaino ficcato nel collo di bottiglia evita lo sgasamento delle bevande effervescenti. Che è scientificamente vero quanto la mia capacità di volare tenendo tra le chiappe una copia dell’Herald Tribune.

-i buontemponi che quando sentono passare un’ambulanza, fanno cenno che il ferito è l’amico loro, che invece sta benissimo, e giù a ridere.

-Le ragazze sugli scooter con la faccia sempre incazzata. Non è colpa mia se il casco vi ha scompigliato 50 euro di friseè.

-I giovani contemporanei che vanno in giro con le maxi cuffie audio sulle orecchie.  L’unico vantaggio, ragazzi, è che non potete sentire il clacson della Volvo che vi sta arrivando addosso.

-Gli automobilisti utilizzatori delle quattro frecce in qualsiasi situazione. In doppia fila, retromarcia, sorpasso, come saluto, minaccia, in forma di anatema e fathwa, per manovre contromano, colpi di stato. A meno che non sia stato vostro figlio di 5 anni a scombinarvi il cruscotto mentre vi aspettava chiuso in  auto all’uscita di quel sexy shop, andate affanculo.

-gli account di coppia su facebook. Sono un uomo sposato, e quindi l’ultimo a poter dare consigli su come si debba gestire un rapporto sentimentale (è una cosa che lascio fare a Joseph Ratzinger). Ma facebook è pieno di insidie (figa per lui e rattusi per lei) per poter giovialmente gestire un profilo insieme. Non esiste un rapporto così. Né sulla rete, né nella vita. Piantatela.

 -la vicina d’ombrellone che “se c’è un cane che mi fa impazzire, quello è il lassie. Vorrei avere tanti lassie a casa.” Le enciclopedie, invece, lasciale in mansarda.

-i ragazzoni che girano coi boxer mare sopra e gli slip di cotone griffati sotto, che si legga bene la marca. Il bagno al mare con le mutande? E costoro, tra un paio di anni, avranno anche il diritto di voto.

È passato un mese, ma credo di essere invecchiato di 15 anni.

Qualcosa di memorabile invece l’avrò fatta, nell'agosto 2012? 
Ad eccezione di un secondo posto ad una gara di karaoke con un pezzo di Julio Iglesias, no.