lunedì 7 ottobre 2013

Le Sette cose da non dire ad una ragazza al primo appuntamento



7. 
Alza gli occhi al cielo. E' l'unica cosa più grande di me.

6.
Non ho mai incontrato una ragazza così dolce nella mia vita. Posso leccarti?

5.
Sai che per colpa mia Rocco Siffredi è in analisi?

4.
Sai cambiare la ruota di una macchina?

3.
La mia lingua sa di ragù. Vuoi assaggiare?

2.
Sali su da me? Ho una collezione di peni in bronzo.

1.
Sei celiaca? Il mio uccello è senza glutine.

giovedì 19 settembre 2013

Chi è il Bastardo?





Scendo in fretta tutti i gradini che ci sono, dimenticando anche i tic che oramai ripetevo dalla prima adolescenza. Il portone è già aperto. Il collaudatore delle caldaie attende impaziente al citofono che qualcuno gli apra. Il tatuaggio sul bicipite sinistro inizia a spazientirglisi. Corro a zigzag tra escrementi di cane e volantini elettorali. Se c'è una cosa che identifica l'arretratezza culturale di un popolo è proprio il fatto che non ti lasciano far cacare il cane in luoghi puliti. E così lo deve fare, povera bestia, in mezzo alle facce dei politici. Che poi non noti nemmeno la differenza.
Salto i convenevoli con la vecchia del piano di sopra. Non è il momento di commentare il costo della vita e la bruttezza degli sceneggiati Rai. E poi puzza di apocalisse anziana.
Apro il portoncino esterno. L'amministratore di condominio, e la sua alopecia, hanno deciso di posizionare il pulsante apriporta lontano circa 10 metri. Ecco perchè non ti pago mai.
Esco alla luce del sole, ma la Panda che mi deve trascinare via da qui non c'è ancora. L'sms “sto sotto" resta uno dei misteri dell'antropologia contemporanea. Stai sotto, sì, a un acido.
Attendo appoggiato alle cassette della posta.
Arriva un uomo di 50 anni, brizzolato, con una tuta decathlon sdrucita e l'aria affaticata. Lo riconosco. Lui non riconosce me. È quello che fino a qualche anno fa sgommava sul suo mercedes SLK, in giro per supermercati a rappresentare spalle di cotto e bresaola e croteggiare cassiere insoddisfatte. Sta inserendo volantini nelle buche, trascinando un carrello da spesa, quelli delle nonne, di tessuto scozzese. Gli regalo uno sguardo pietoso dietro ai miei Rayban rettangolari opachi. Lo ricordo ancora, quando ci squadrava, noi, fumatori di skank alle prese con i primi microfilmati di 144, altro che youporn. Una sera ci puntò i fanali contro, per 3 lunghi minuti. Noi restammo lì. Poco dopo, arrivarono gli sbirri, e fortuna che avevamo finito tutto.
Ora tu sei qui ad infilare dita grosse nelle fessure arrugginite della mia posta. Scivoleranno giù offerte di pannolini e Jaegermeister. Crepa, maiale.Tu e i tuoi volantini del cazzo.
Aspetto che li abbia imbucati tutti, uno per uno, ben piegati.
Poi li tiro fuori dalle cassette, con calma certosina e li spalmo per terra. Fotografo lo scempio ambientale, che vergogna. E mando tutto all'indirizzo mail sul volantino, alla voce “Segnala gli sprechi”.
E ora puntami questi fanali.

mercoledì 21 agosto 2013

La fiamma è spenta o è accesa.


La stanza era poco illuminata. Una decina di candele, posizionate a circa due metri da terra, all'interno di nicchie ricavate nel muro di tufo. Le fiammelle erano equidistanti. Se avessi tracciato una retta immaginaria tra loro avresti ricavato un reticolato asimmetrico. Qualcuno aveva sbagliato la disposizione. Nonostante tutto si riuscivano a delineare tutti i profili dei presenti, e persino le emozioni abbozzate sui volti. 

Chi aveva appena capito di essere irrimediabilmente ubriaco cercava di recuperare la mascella che pendeva inoperosa sorretta solo da guance emaciate.
Chi aveva puntato la sua donna per la notte, rimandando di continuo l'approccio, ora non ne riconosceva più la sagoma, e temeva che quella mano sulla spalla di un goffo barbuto con la coda fosse la sua. Lo era.
Chi entrava nella stanza come se tutti stessero aspettando lui, e ne usciva di lì a poco capendo che il mondo, dopo tutto, gira anche senza il nostro misero apporto.
Chi aveva avuto la chiacchierata più inutile della sua vita.
Chi cercava con la lingua una scheggiatura di un molare.
Chi versava alcol in bicchieri così piccoli che non facevi a tempo a girarli, che subito eri di nuovo al bancone per la sete.

Le candele divennero nove. Una si era spenta a causa del vento.
Vento non ce n'era, nella stanza. Forse un alito improvviso, una voce alzata più del previsto. Luce ne rimaneva, comunque. Di sicuro abbastanza per parlare a mezza bocca senza che nessuno lo potesse capire.
Si spensero due candele. Tre sagome, vestite di scuro, sparirono dietro una panca, inghiottite dal buio.
Sette candele maldisposte creano uno strano effetto. Alcune zone sembrano illuminate a giorno. Altre piombano nelle tenebre. Lì spariscono anche i suoni.
Tu controllavi tutto dal tuo posto. Al sicuro, con una piccola candela posizionata poco dinanzi a te. L'unica sui tavoli. Questo ti rendeva facilmente scrutabile dagli altri. Vi, rendeva.

Una ragazza in abito a righe uscì. Si spense una candela, la più alta di tutte.
Un uomo la seguì a passi più lenti. Dovevano aver litigato, perchè lei scuoteva la borsa in pelle come se fosse una bestia da punire. Un'altra candela si consumò al loro passaggio, così come la loro storia.
La stanza divenne nera, con piccole strisce di luce in quattro punti. Un ragazzo ubriaco indossava un cappello da messicano. L'avevo notato da fuori. Bevuto tutto quello che c'era da bere, continuava a parlare, presumibilmente da solo. Smorzò una candela con le dita.
L'uomo dietro al bancone buttò le ultime bottiglie vuote. Cercava uno straccio umido per pulire le mani appiccicate, ma non lo trovò. Il giusto riparo in un sigaro, ma si spense. Allora avvicinò la sua bocca alla penultima candela accesa. Poi, con un soffio, la spense, proprio quando io spensi la nostra.

Ora non si vedeva più nulla.
O meglio, ora vedevo tutto quello che avrei voluto vedere da dieci candele fa.

mercoledì 10 luglio 2013

Guida in 3a persona alla preparazione di risse con sconosciuti.

Non capita spesso che si lasci andare ad appuntamento di cartello locali, organizzati alle ore 20 col chiaro intento di impiattare su di un tavolone gli avanzi del pranzo, farti ascoltare quello che una volta era trasmesso nella sala d’attesa dei dentisti e costringerti a stendere su divanetti bianco coloniale più profondi di qualsiasi femore. Il tutto, altrimenti detto, aperitivo cenato.
Non che F. disprezzi i neologismi, ma signora mia, aperitivo cenato non si può proprio sentire. L’accezione “apericena”, poi, lo ha spinto a prendere il porto d’armi. L’abbondante premessa, comunque, più che servire a spiegare  luogo ed ambientazione, era per capire chi si ferma alle prime tre righe del post, commentando l'apericena. Andiamo avanti.

Era lì che cercava di capire a quando risalisse la coltivazione della carote siliconata che intingeva nella mayonese, che l’improvvido deejay stabilisce che è giunta l’ora del karaoke.  Il mondo continuava a girare, e nel locale all’aperto ognuno proseguiva nell’opera di controllo smartphone ed abbeveraggio. Nessuno osava avvicinarsi alla console. Era passata circa mezz’ora da quella supplica inascoltata, intervallata da un paio di pezzi riempipista, di sicuro in Kazakistan. Propone un Campari in omaggio al primo coraggioso.
Mosso a compassione e più assetato del solito, F. si alza in piedi e si avvicina all’omino in cuffie, che per una ventina di euro stava cercando di accompagnare le fauci alla moda di bellimbusti in Fred Perry e signore in abiti fluo. Andava di sicuro meglio al pakistano delle rose, la serata, impegnato a raccogliere una serie di “non stiamo insieme” e “siamo tutti uomini”.
“Ce l’hai You spin me around dei Dead or Alive?”, chiede F., avvicinandosi all’orecchio del dj.
“Boh, mo’ vedo”, monosillaba il giratori di dischi, come se stesse parlando con un ottantenne in fila alle poste. “Eccolo, ma la conosci solo tu”, aggiunge poi con un sorriso beffardo e tartarico.
“Tu mettila e zitto”, chiude F..
Se la canto tutta. È il pezzo più anni ’80 degli anni ’80. C’è tutto. I capelli lunghi, i guanti, i balli mani roteanti e ginocchia flesse. Qualcuno applaude, la cameriera gli porta il suo Campari.
“Ma voi la conoscevate?”, chiede il disc jockey agli avventori.
Dal fondo della sala, un ragazzo con gli occhiali da sole (e se apericena si odia, quelli con gli occhiali da sole di sera non sfigurerebbero a cadere dalle scale con le mani in tasca) fa: “Certo. Era Bananarama dei Venus”
“No”, fa F.. “A parte che hai invertito i nomi. Bananarama è un gruppo, e Venus era il loro pezzo. Ma si trattava di You spin me around dei Dead or Alive”
“Ti sbagli”, fa quello.
“Guarda, giovane, che c’è anche scritto qui sul monitor, se proprio non dovessi credere a me. Ma comunque fidati”.
“Guarda che lo conosco ‘sto pezzo, ed è dei Venus”, aggiunge il tipo, mentre l’amico al suo fianco ride con una cannuccia incastrata fra i denti.
“Ti ripeto, per l’ultima volta e poi chiudo qui, che i Venus non esistono. Quando è uscito questo pezzo tu e la tua pettinatura non esistevate ancora”, cerca di spiegare F., mentre il dj lo guarda allibito e qualcuno riprende timidamente la scena col telefono.
“See, vabè. Informati meglio” e l'occhialuto fa un tiro di sigaretta elettronica.
F. mastica il ghiaccio sul fondo del bicchiere. Masticherebbe volentieri anche il bicchiere, se potesse. Fa un passo avanti, ma poi torna al suo posto.

La serata prosegue, dimenticabilissima, come al solito.
Verso le undici, il tipo occhialuto si avvicina al tavolo di F. e gli lancia un'occhiata senza senso. Poi fa: “sei ancora convinto ?”
F. lo guarda, e chiude: “Sai che sei utile all’umanità come la carta da gioco dei punteggi internazionali?”, e va via.

Qualcuno sorride. Qualcuno no.




mercoledì 26 giugno 2013

Una storia capitata al sottoscritto che vi prego di non divulgare


Svegliarsi in piena notte madidi di sudore, accorgendosi di avere un piede caldo sotto il lenzuolo ed un altro gelido che sporge dal letto, penzoloni. Il mangiacarte sul muro non fa un passo da giorni. E' vivo, e mi pare di sentirne il respiro. Mi pare.
Mi alzo che qui dormono tutti. Un sorso d'acqua, pipì. Bear Grylls avrebbe di sicuro dimezzato i tempi delle due operazioni. Sorrido a questo pensiero.
Torno verso il letto.
Appoggio la testa umida sul cuscino, poi ricordo che non lo uso più. Copro l'orecchio con un braccio. Intorno a me si gonfiano respiri pesanti.
Sto per riaddormentarmi.
Tre, due, uno. Arrivo.

Poi, il dubbio.

Perchè arriva il dubbio? E perchè proprio mentre sto riprendendo il mio fottuto, legittimo sonno? Dopo una giornata di scale fatte, telefonate ignorate, facce asimettriche a cui rispondere "sì, è vero", quando invece non era vero un cazzo, Devo dormire. E' un mio diritto.
Tu ti sei insinuato, dubbio. Sei salito da qualche parte, nella testa, e ti sei poggiato lì sulla fronte. Sinusite interrogativa. Ora hai accovacciato le tue gambe immaginarie, ed aspetti risposta. Solo che sono le 4, ed io la risposta non ce l'ho.
Potrei cercarla su wikipedia, in un attimo, con tre strisciate di polpastrello.
Il cellulare è lontano, chisaddove, scarico. Ma comunque spento.
Il pc dorme, e ci metterebbe comunque 12 minuti a prendere vita dal momento dell'accensione. Giuro.
Gli altri sono in coma. Chi etilico, chi controllato, chi letargico (il mangiacarte, presumo).
Non saprei come risolvere. Riprovo a dormire.
Niente.
Penso ad altro, ma controvoglia. Penso a lei.
Lei mi chiamava, mi scriveva, mi disegnava, mi cantava pezzi di canzoni ignote di cantanti ignavi.
Poi ha smesso. 
L'altro giorno una terza persona (attenti alle terze persone, perchè sono quelle che in un modo o in un altro ci condizionano la vita. Non le seconde, nè le quarte. Le terze) mi invia una fotografia di un cucciolo di 40 giorni.
E' il suo nuovo cane. Suo di lei, non della terza persona.
E lei lo ha chiamato come me. Non so se si possa definire una cosa positiva. Ma mi ha fatto sorridere molto. Forse provo a risentirla. Le scrivo un messaggio. O forse no.
Ecco, diciamo che questo è un buon argomento per riprendere sonno.
Dai, che ci sono.

No. Niente. Ancora quel dubbio.

Una macchina parte lentamente dal parcheggio sotto alla finestra. Gente che viene e gente che va. Riesco a cogliere la canzone che dall'autoradio è dedicata alla partenza. Per me è fondamentale che sia all'altezza della situazione, anche se si dovesse trattare di un viaggio di 500 metri. Lui, o lei, questa notte ha scelto Perfect Day di Lou Reed. Non so se si stia augurando qualcosa per domani o stia degnamente concludendo l'oggi. Gran pezzo, ottima scelta, chiunque tu sia.

Ma il mio dubbio è sempre qui.

Verifico la lunghezza delle mie unghie. Corte. Benissimo. Pulisco i denti con la lingua. Stratagemmi innocui che non mi porteranno in nessun dove. Devo fugare, risolvere il dubbio. Eppure lo sapevo.
Aspetta, forse ce l'ho. Macchè, niente. 



Riprendo coscienza grazie ad un raggio di sole che mi trapana un occhio. Sono le sette. Devo essermi addormentato, nel frattempo. 
Ora non ricordo cosa non ricordavo.
Questo non mi è mai capitato.
Poi, ritorna il dubbio, e con esso la soluzione. 
Come se l'avessi saputo da sempre.

Si chiamano tumbleweed gli arbusti rotolanti del west. Tumbleweed. 
Figli di puttana.

giovedì 23 maggio 2013

Vuoi perdere peso? Non chiedermi come.





Donne.
Una di voi ha messo al mondo me.
Una di voi ha preso la mia adolescenza onanistico-calcistica è l'ha accartocciata, gettandola dal finestrino in zona riconosciuta dal Fondo Ambientale come a rischio idrogeologico.
Una di voi mi ha fatto scoprire i piaceri della carne e quelli delle corna.
Una di voi mi ha sposato.
Una di voi mi corrobora le giornate lavorative con i riassunti delle puntate di Chi l'ha visto e Cucine da incubo.
Molte di voi lavorano (beh, lavorano), sedute scompostamente alle loro scrivanie nei 90 mq del nostro ufficio, cercando di accavallare le gambe senza sgualcire la gonna fiorata Desigual.
Altre entrano spesso nella mia stanza, a chiedermi conto delle azioni dei loro compagni, spesso ingenui, altre volte chiaramente desiderosi di tenere il piede in cinque scarpe diverse.
Ma nonostante tutto, a voi non potrei rinunciare.
Siete la parte migliore dell'esistenza.
Con la vostra capacità di capire il maschio e nonostante tutto continuare a passarvelo tra le dita delle mani con grazia.
Vi amo.
Tranne verso la fine di maggio.

La fine di maggio dura molto più di quanto dica il calendario. Il tempo si espande, i secondi diventano ore, come quando la radio passa una canzone di Cremonini e ti auguri finisca il prima possibile, e quella niente. Resta anche sotto alle gallerie più lunghe.
Le donne, quelle che conosco io, non sono più donne, verso la fine di maggio. Sono altro.
Alla fine di maggio si moltiplicano i cataloghi.
Si diffondono dicerie sulle proprietà della bava di lumaca.
Il siero di vipera.
Il muco di scorpione.
Lo chatouche, altrimenti noto come “ricrescita dimenticata lì”.
Le bacche di Gogj.
Dukan, tisanoreica, zumba.
Alcune donne, che hanno tenuto il collo protetto da un morbido dolce vita fino a Santa Rita, scoprono pian piano gli effetti Serum 7.
La fine di maggio sembra non finire mai.
L'acre odore di Somatoline si espande per le condutture dell'aria condizionata.
Non riesco a parlare con i fornitori.
C'è il filler da completare.
Le fragranze.
Contorno occhi.
Mesoterapia.
Drenaggio.

Non vedi l'ora che finisca, la fine di maggio.

giovedì 2 maggio 2013

Che fine ha fatto Ettore Aldimari?

 

Ero un uomo medio. Senza pretese. Con le mie fissazioni. Mi pentivo di essermi tagliato la barba, mentre la tagliavo. Allora lasciavo crescere i baffi.
Per lungo tempo ho lavato molto più spesso la parte sinistra della mia bocca.
Ho dormito dieci anni senza cuscino, poi non ne ho potuto più fare a meno.
Ero convinto di avere in mano il destino del mondo, e ne rispettavo la sorte gestendo il giusto numero di passaggi sugli zerbini che incontravo nel mio percorso.
Guardavo con nostalgia i capelli tagliati dal barbiere, cadere in terra ed essere calpestati da quest'uomo completamente calvo. Non ci avevo mai fatto caso.
Davanti ai miei occhi aprivano e chiudevano pub irlandesi gestiti da materani, centri benessere nei quali poter prendere la tua epatite preferita, sale scommesse affollate di illusi divoratori di unghie e diana bludure, compro-vendo-presto-rubo-scippo oro.
Camminavo a testa bassa.
Non avevo pacche sulle spalle.
Non avevo spalle.
Andare al lavoro, restare a casa, perire in un maremoto non faceva differenza per me. Tutto procedeva con una sorda, ovattata linearità.
Era un periodo buio.
Non c'erano social network. Riuscivamo a sentirci soli senza bisogno di tecnologia.

Poi è arrivata lei.
Bella come una canzone bella.
Segreta. Luminosa. Misteriosa. Calda.
Capace di nulla, quando più si ha bisogno di tutto.
In grado di ogni cosa, quando non ci pensi, ormai, più.
Cambiandomi, molecola per molecola, pensiero su pensiero, indefinitamente.

Poi è andata via.

venerdì 29 marzo 2013

A me Marzo non è mai piaciuto (storia triste, poi speranzosa, poi)





Scendo in fretta, tre scalini alla volta, perchè è irrimediabilmente tardi. La mattina è catastrofica. Questa volta lo scooter l'ho parcheggiato in fondo al vialetto, pur essendo una zona in cui l'umidità decide di sperimentare nuove forme di condensa semisolida. Schivo due gatti guardinghi che ho deciso di non nominare, tanto comunque non mi degnano della minima attenzione. A circa tre metri dal mio impregnato scooter c'è un omino sulla settantina, intento a dipingere con certosina passione l'inferriata del recinto. Indossa uno di quei cappelli da pescatore ingialliti da sole, ms e sudore, e lavora di fino col pennello, stemperando un grigio temporale su un ferro mm.3.
“Buongiorno”, gli faccio
“A voi. Andate a lavorare?”. A me il voi non dispiace. Soprattutto dettomi da un anziano lavoratore piegato sulle ginocchia.
“Bè, si” faccio io, “e sono anche un po' in ritardo”
“Dove lavorate?”
“Nell’Ufficio xyz, al Palazzo Arancione”, faccio io.
Il vecchietto posa il pennello e mi fissa per qualche secondo. “Io ho lavorato lì di fronte , per venti anni. Sturavo i pozzi. Ci lavora anche Antonio. Lo conoscete?”
Lo conosco. Lavora a due passi dalla mia finestra.
Riprende a parlare. “E' una bravissima persona, sempre disponibile. Mi ha anche aiutato molto in un momento particolare della mia vita. In quei giorni non avevo nessuno, e lui c'è stato. Senza chiedere nulla”, aggiunge parlando lentamente, cercando di affinare il suo italiano stentato.
Lo sguardo si fa lucido. Riprende a spennellare, ma il suo braccio ora è molto più raccolto.
“Voi ditegli solo che lo saluta Gianfranco, il pittore. Lui si ricorderà. E ditegli che...” Si ferma. Guarda il lavoro fatto fino al momento preciso in cui mi ha rivolto la parola. Pare soddisfatto.
Io aspetto.
“E ditegli che appena posso lo passerò a trovare”.
La voce è rotta dal pianto. Si tocca il naso col polsino della camicia di flanella. Dice un'altra cosa che non capisco, ma mi piace pensare che mi abbia salutato. Ficco il casco e mi passa un brivido dietro alla nuca. La sagoma di Gianfranco piano piano rimpicciolisce nello specchietto retrovisore, fino a svanire dietro l'angolo.
Ci sono momenti in cui vorrei che lo scooter si ingolfasse. Non ho più voglia di andare al lavoro. Mi fermerei, se potessi, in riva al fiume. Che anche se è beige e dentro ci nuotano solo le piattole, è comunque il mio fiume, padre dei canneti che ancora si vedono da qui e di generazioni di zanzare con le quali non ho ancora imparato a convivere.
Le braccia, invece, come al solito mi riportano in ufficio.
Ora Gianfranco avrà finito la parte della ringhiera che gli mancava. Starà passando la seconda mano, o si sarà fermato a fumare? Qualcuno che lo aspetta a casa c'è? Un nipotino che gattona e presto imparerà ad usare il telecomando prima che ad imparare le regole del nascondino, un'anziana moglie pronta con il caffè del discount allungato nelle tazzine di porcellana sbiadita e stinta? Non so cosa stia facendo Gianfranco ora, in realtà.
Cerco con lo sguardo Antonio, fuori alla porta del suo ufficio. Ma non c'è.
Sono passati alcuni giorni. L'inferriata è bellissima. Mai uno squallido grigio è stato tanto splendente. Gianfranco ha finito il suo lavoro e seduto a terra non c'è più nessuno. Sarà altrove.

Oggi, senza andare di fretta, sono arrivato con 5 minuti di anticipo. Il tempo è un cattivo amico. Si rende utile solo quando non ne hai bisogno.
Mentre giro la chiave nella serratura, dalla porta a specchio intravedo la sagoma di Antonio. Si sta accendendo la prima delle mille sigarette che fumerà oggi. Torno indietro, gonfio il petto e mi avvicino. “Qualche tempo fa ho conosciuto Gianfranco il pittore. Ti saluta caramente.”
Sono orgoglioso. È come se avessi portato il latte caldo ad un bambino con la gola gonfia e dolorante. So di aver completato la mia opera.
Antonio mi guarda, fa un tiro lungo e, sputando il fumo, mi fa “Se lo rivedi digli che è uno stronzo.”
E se ne va.
Io resto lì, con la mia solita faccia.
La faccia di uno che il tempo passa, e non ha capito un cazzo.